Vladimir Liad, la marionetta, il pittore più piccolo del mondo creato dalle sapienti mani di Valentina Baldazzi dà vita, corpo e colore alla magia di Gontran lo spazzino Gontran le balayeur la favola bilingue di Juliette Seina Deweze edita per i tipi di Cultura e dintorni Editore.
per info scrivere a: redazione@culturaedintorni.it
Il cambiamento parte da qui: Comunità Energetiche e l’impulso europeo da 5,7 miliardi
L’Ascesa delle CER in Europa
Le Comunità Energetiche Rinnovabili stanno diventando rapidamente una realtà consolidata in Europa, con un impulso notevole dovuto ai recenti sviluppi legislativi e tecnologici. Si tratta di un fenomeno che affonda le radici agli inizi del XX secolo, ma che ha visto una rinascita significativa negli ultimi decenni.
Con sgomento e dolore abbiamo appreso la notizia della scomparsa in questi giorni di Roberto Pazzi. È davvero molto difficile parlare in termini di ricordo di una persona che proprio attraverso un’inesauribile vitalità esprimeva l’essenza del suo essere. Un’incredibile vis creativa che rivelava e articolava, nelle sue diverse forme ed espressioni, quella fame di vita di cui non era mai sazio. La potenza evocativa del suo immaginario che spalancava le porte di infiniti mondi tutti ancora da conoscere ed esplorare. Giuda, Tiberio, Caligola, Claudio, la dinastia degli zar, l’imperatore, Napoleone, il papa, infinito l’elenco delle sue trasposizioni e trasfigurazioni… il romanzo che ha riabilitato come genere letterario e nobilitato nella sua più pura essenza difendendolo, ridefinendolo e invocandolo come teatro, come palcoscenico denso, come chiave di accesso a infiniti territori da esplorare con la forza di quella risorsa in lui inesauribile: l’immaginazione. L’unica vera sua musa. È stato e resterà per sempre tra i più grandi narratori di tutti i tempi, alla ricerca continua di quella irrealtà così reale e vera nelle sue pagine, ed è stato anche un raffinato, raffinatissimo poeta e saggista. Lo ricordiamo nel 1996 all’Università per Stranieri di Perugia dove letteralmente stregò gli studenti e tutti gli altri presenti con la potenza della sua verve, della sua ironia, con le sue infinite conoscenze e con un’ineguagliabile capacità affabulatoria, rivelatrice di generosità e passione, da quel grande istrione che era. Successivamente, dopo la nascita del periodico “Cultura e dintorni” e dell’omonima casa editrice, il prof. Renzo Pavese, membro del comitato scientifico del periodico, lo intervistò per quella che a tutt’oggi resta tra le interviste più importanti e significative del nostro periodico per acutezza e profondità di pensiero e di visione. In tempi bui come quelli che stiamo vivendo, di violenza sempre più feroce e disumanizzazione, mancheranno la sua voce, la lucidità del suo pensiero come il suo stile, la gentilezza e l’eleganza che gli erano propri. Lo vogliamo ricordare qui con le sue stesse parole nell’intervista curata da Renzo Pavese pubblicata nel 2014 sul Numero 10/11 del periodico “Cultura e dintorni”… Luca Carbonara
In un’epoca in cui la sostenibilità ambientale è diventata una priorità globale, il Belgio si sta affermando come leader nel settore dell’energia eolica offshore. Con il suo innovativo progetto Princess Elisabeth Island, il paese sta non solo aumentando la sua capacità produttiva di energia rinnovabile, impostando nuovi standard nel campo dell’energia eolica, dimostrando come l’innovazione possa guidare efficacemente la transizione verso un futuro più verde… https://www.culturaedintorni.it/wp/wp-admin/post.php?post=2308&action=edit
Le accorate grida dell’Arte e degli artisti contro la guerra
Intervista a Roberto Gramiccia
a cura di Luca Carbonara
In un presente e in un mondo sempre più scossi e pervasi da impetuosi venti di guerra sembra, a dispetto di ogni buon proposito, che la cifra dominante sia quella della violenza, quel fatale e oscuro morbo che, dalla sua comparsa sulla Terra, affligge l’animo dell’uomo che continua pedissequo a praticarla in tutte le sue più efferate declinazioni. Perché l’uomo postmoderno, capace di progettare missioni prima sulla Luna poi su Marte, non ha ancora imparato a vivere in Pace?
La violenza è da sempre figlia da un lato della hobbessiana natura dell’uomo (homo homini lupus) e dall’altro di interessi contrapposti di classi, stati o alleanze di stati (Nato); a partire dalla caduta del muro di Berlino il motore principale di questa violenza è stato rappresentato dalla volontà degli Stati Uniti di diventare il gendarme del mondo, senza che l’Europa abbia saputo fare alcunchè per temperare tale volontà di dominio.
Dove e perché nasce l’impulso alla violenza? C’è un drammatico problema, prima ancora che relazionale, identitario nell’essere umano, di rapporto cioè e di definizione della propria identità sempre più labile, indistinta, indefinibile e dipendente da altro e da altri?
La violenza dell’uomo è una risposta naturale all’angoscia dell’esistere (per la morte), al thauma, come lo chiamava Aristotele. O, in altre parole e da un’altra angolazione, può essere considerata come la reazione alla consapevolezza della “carenza” dell’uomo rispetto alla esperienza dell’esistere (Gehlen). Per quanto riguarda l’identità, ciò che è venuto a prevalere è l’interesse omologante di un tecnocapitalismo globalizzato senza più antagonisti, a discapito di qualsiasi identità “altra”.
Che cosa significa oggi essere persone libere? Il Vecchio Occidente, tanto blasonato, considerato la punta più avanzata in termini sia culturali che sociali, di conquista, affermazione e difesa dei diritti della persona, culla di civiltà, dei Greci prima e dei Latini poi, dell’Umanesimo, del Rinascimento, della Rivoluzione Francese ma anche atroce teatro dei due più spaventosi conflitti mondiali della Storia, mostra oggi, come non mai, tutti i suoi limiti e contraddizioni. In un contesto come quello attuale della globalizzazione, in cui proprio i diritti e i principi di uguaglianza sono in discussione e in pericolo con inaccettabili sperequazioni e, ancora, pericolose manifestazioni di intolleranza, discriminazione e violenza, frutto di questioni mai risolte e conseguenze degli stessi conflitti con rivendicazioni, revanscismi e nuovi nazionalismi, l’Europa, l’eterna incompiuta, sembra aver irrimediabilmente tradito se stessa. La conseguenza è che la guerra, i cui focolai sono disseminati su tutto il pianeta, è tornata ad essere anche in Europa lo strumento di risoluzione dei conflitti tra i popoli. È del tutto evidente l’irreversibilità della crisi di quello che è un capitalismo sempre più estremo. Perché non è stato ancora possibile porre fine a quello “scandalo che dura da diecimila anni”?
Lo scandalo è figlio in parte della natura dell’uomo, della sua strutturale inadeguatezza (fragilità) e, in parte maggiore, della natura stessa dell’attuale sistema economico dominante che ritrova nella guerra la modalità principe per uscire dalle sue crisi cicliche.
Lei è scrittore, medico e critico d’arte: sembra incarnare un compendio tra la scrittura, la scienza e la ricerca dell’armonia e della Bellezza. Qual è l’origine di quell’invisibile filo che sottende in lei una tale insopprimibile tensione emotiva e spirituale oltre che etica animandola di tanta inesauribile capacità ed energia creativa?
La ringrazio di tanta e qualificata considerazione. Direi che la principale ragione che mi spinge è la necessità di recuperare un interesse per l'”intero”. Per una dimensione, cioè che, nella separazione fra medicina scienza bellezza arte e politica, non riconosca un valore ma, piuttosto, l’approssimarsi di una sciagura. Il resto è figlio di un naturale, temperato narcisismo dal quale non credo di essere indenne.
Nella sua ecletticità e poliedricità d’ispirazione morale, etica e ideale è riuscito a farsi ispiratore e promotore di una nobilissima iniziativa: la mostra “La crociata dei bambini. Artisti per il disarmo”, che vede coinvolti le istituzioni (il VII Municipio di Roma), l’ANPI, associazione benemerita, nelle figure dei suoi più autorevoli rappresentanti, e decine di artisti, in cui si vanno significativamente a coagulare la scrittura, la musica, la poesia e la pittura. Vale a dire il poema di Bertold Brecht, da cui prende nobile ispirazione il titolo della mostra, l’omonima bellissima e intensa canzone di Vinicio Capossela, il linguaggio figurativo dei trentacinque pittori che hanno aderito all’iniziativa. Se ormai da troppo tempo è diventato assordante il silenzio degli intellettuali (ma esistono ancora?), possono davvero gli artisti con la loro sensibilità e le loro opere scuotere e risvegliare le coscienze assopite? Che cosa è in grado di smuovere la visione di un’opera d’arte e non crede che ci sarebbe bisogno anche di un’educazione alla visione?
Gli artisti possono fare molto. Potenzialmente gli artisti possono fare tutto. Se è vero che alcune rivoluzioni (non solo estetiche) sono state delle vere e proprie opere d’arte. La capacità di vedere e riconoscere un’opera d’arte è un dono della natura. Non vi è dubbio, tuttavia, che possa esistere un “apprendistato alla visione”, alla valutazione del bello e del buono. Questo è il compito della scuola che non dovrebbe insegnare le declinazioni dello spirito aziendale ma quelle del buon pensare, del buonagire, del buon dire e del saper distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso. In questo senso la mostra di cui parliamo ha anche un indubbio valore pedagogico. Colgo l’occasione per ringraziare uno per uno gli artisti che hanno partecipato a questa avventura e, naturalmente, l’ANPI nazionale e il Settimo Municipio di Roma. Senza di loro questa “Crociata” non sarebbe mai partita.
Un segno di gratitudine, oltre che a tutti coloro che hanno aderito a questa nobile iniziativa, va rivolto proprio a lei che ha saputo cogliere la gravità del vulnus inferto dai nuovi vecchi conflitti che insanguinano il mondo: quell’innocenza, incarnata in primis dai più piccoli, le prime vere vittime di ogni guerra, che rappresenta insieme l’essenza del nostro essere umani e la più alta visione per il nostro spirito e la nostra sensibilità. Calpestare l’innocenza significa offendere e rinnegare la dignità e il senso stesso del nostro essere donne e uomini. È quello che sta drammaticamente accadendo in Ucraina, nella striscia di Gaza, dove all’orrore viene contrapposto altro orrore, e in altre decine di teatri di guerra nel mondo. Avete pensato di coordinarvi con altri artisti nel mondo per rendere globale e inarrestabile questa crociata dei bambini, l’unica ammissibile, e provare perché no, a mandare il vostro messaggio all’ONU, l’unico organismo deputato a operare per la pace e il disarmo nel mondo anche se a tutt’oggi prigioniero di quello stesso potere causa di tutti i mali?
La ringrazio del suggerimento che è prezioso. Forse non ci abbiamo pensato per l’incombente consapevolezza dei nostri limiti. Ma questo è sbagliato perché per una giusta causa – come quella della pace – si può, anzi si deve essere spericolati, sfacciati, insolenti.
Trentacinque artisti visivi espongono opere selezionate per manifestare contro la guerra, a favore del disarmo e per una rapida soluzione dei conflitti in corso
Ennio Alfani, Andrea Aquilanti, Gianfranco Basso, Valeria Cademartori, Ennio Calabria, Caterina Ciuffetelli, Angelo Colagrossi, Gianni Dessì, Paolo Di Nozzi, Stefano Di Stasio, Davide Dormino, Mariano Filippetta, Alessandra Giovannoni, Pierluigi Isola, Ernesto Lamagna, Felice Levini, H.H. Lim, Adele Lotito, Federica Luzzi, Mauro Magni, Giuseppe Modica, Luca Padroni, Roberto Pietrosanti, Salvatore Pulvirenti, Nicola Rotiroti, Pietro Ruffo, Massimo Ruiu, Giuseppe Salvatori, Stefano Salvi, Sandro Sanna, Maurizio Savini, Vincenzo Scolamiero, Normanno Soscia, Silvia Stucky, Alberto Timossi
Roma – La crociata dei bambini. Artisti per il disarmo è il titolo della grande mostra per la pace ideata e curata da Roberto Gramiccia che verrà inaugurata mercoledì 13 dicembre 2023, alle ore 17, presso la Sala Consiliare di Villa Lazzaroni (Via Appia Nuova 522).
Il titolo è ispirato alla ballata di Bertold Brecht a cui si è richiamato Vinicio Capossela nella scrittura di una recente, bellissima canzone. Un riferimento antiretorico che mira a contrapporre l’innocenza dei bambini agli orrori della guerra.
Cessare il fuoco in Ucraina come nella Striscia di Gaza e avviare trattative diplomatiche risolutive e risanatrici; questo l’imperativo a cui l’arte cerca di accordarsi per invocare, con i suoi strumenti e il proprio linguaggio, uno scenario alternativo, liberato dallo “scandalo della Storia”, per usare le parole di Elsa Morante.
L’esposizione tende a un’ampia coralità di voci, sollecitando l’unità di tutte le forze autenticamente pacifiste, laiche e cattoliche.
Alla presentazione della mostra, che si terrà nell’attiguo Teatro della Villa, interverranno, oltre al Curatore Roberto Gramiccia, il Presidente Nazionale dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo, l’Assessore alla Cultura del VII Municipio, Riccardo Sbordoni e l’attrice Benedetta Buccellato che leggerà testi poetici e in prosa dedicati al tema della pace.
La mostra sarà visitabile fino al 21 gennaio 2024, data in cui avrà luogo il finissage alla presenza di autorevoli personalità dell’associazionismo, della cultura e dello spettacolo.
Sarà aperta il mercoledì e il sabato dalle ore 16 alle ore 19 e la domenica dalle ore 11 alle ore 13.
L’imprevedibile destino di sentirsi in una “trappola morale”
Intervista a Roberta Bobbi
a cura di Luca Carbonara
Come accade spesso a tanti attori e attrici che approdano al Cinema dopo pregnanti quanto significative e prodromiche esperienze teatrali, lei approda alla narrativa dopo aver scritto alcuni testi teatrali come Ustascia. In che termini i suoi studi di drammaturgia e di recitazione influenzano, qualificano e determinano la sua successiva formazione come scrittrice di romanzi?
In realtà, studiando recitazione si fa innanzitutto analisi del testo che di solito è prettamente dialogico, si approfondiscono i personaggi cercando di carpire innanzitutto la loro psicologia per incarnarli poi meglio possibile, si cerca di non tradire il messaggio che l’autore voleva trasmettere scrivendo l’opera. E questo vale sia per i copioni di drammaturgia sia per le sceneggiature. Di certo la mia esperienza di attrice mi ha fatto modulare ogni singola battuta, me l’ha fatta assaporare nelle molteplici variazioni semantiche che lo spostamento di un accento può dare. Quando poi ho iniziato a studiare anche drammaturgia ho dovuto inevitabilmente tentare di scrivere per il teatro, almeno per esercizio, e ci ho provato gusto, passione. Tanto da scrivere “Ustascia” e riuscire anche a portarla in scena. Di seguito, ho cominciato a seguire anche alcuni stage di sceneggiatura ed allora ho allargato la scrittura iniziando a descrivere anche gli ambienti. Poi, un giorno, una mia cara amica, attrice, regista e scrittrice di successo mi ha coinvolto nella stesura di un giallo e grazie a lei ho desiderato cimentarmi poi nella scrittura di un romanzo. Avevo l’esigenza di raccontare la storia di una tanatoestetista ma l’argomento non si prestava a una rappresentazione teatrale, l’idea di scrivere una sceneggiatura mi scoraggiava ed allora l’ho scritta in prosa.
Trappola morale, il suo ultimo romanzo di genere noir pubblicato quest’anno da Torre dei venti editrice, che ha il valore aggiunto di essere declinato al femminile, se da un lato per struttura e architettura ricorda una pièce teatrale dall’altro si rivela essere un perfetto meccanismo a incastro in cui tutto ha un unico fine nel rispetto della circolarità di un disegno in cui si intersecano con assoluta precisione le vite come i destini delle protagoniste uniti in modo indissolubile e fatale. Qual è la genesi di questo romanzo e quali sono stati i suoi principali motivi di ispirazione?
“Trappola morale” è nato da due urgenze propulsive. La prima era la volontà di cimentarmi nel genere noir commisto a quello del thriller psicologico; la seconda, il desiderio di dar voce e riscatto a degli esseri arresi ma non vinti. Per un periodo, negli anni novanta, da inevitabile precaria del mondo delle professioni artistiche, ho lavorato in un centro di cartomanzia. L’eco di quell’esperienza mi era rimasta così attorcigliata nella memoria da ispirarmi il personaggio di Francesca. Ho iniziato a scrivere il primo capitolo senza nessuna scaletta. Poteva anche rimanere un monologo teatrale, ma non mi sarebbe bastato. Così, ho cominciato a ragionare su altri personaggi ugualmente invischiati, affini ed allora Elena, una donna d’azione con le armi spuntate e Monica, una giovane complessata convinta che l’unico modo per farsi amare sia quello di prestarsi a delle sevizie, mi sono sembrate le figure giuste. Il resto del disegno, del meccanismo circolare è stato costruito lentamente. L’obiettivo più o meno raggiunto era quello di portare le tre figure al limite della disistima di se stesse per poi farle riemergere anche se non completamente.
Le tre donne protagoniste di Trappola morale, la cartomante, la guardia giurata ex carabiniera esautorata dall’Arma, la giovane masochista, tre espressioni, tre declinazioni, tre variazioni sui temi dell’incomunicabilità e del disagio esistenziale, sembrano essere, non a caso, tutte vittime di un destino avverso, di una vita difficile e ingenerosa che sembra non voler dare loro alcuno scampo. Denominatore comune la solitudine, prima di tutto affettiva, delle loro vite: la prima sola nella sua mansarda conscia di donare illusioni e false speranze a chi la chiama per un vaticinio favorevole, la seconda in cerca di riscatto e di azioni il più possibile coraggiose che la possano in qualche modo riabilitare, la terza in cerca e all’inseguimento di quello che non potrà mai essere un amore ma solo una fonte di dolore e di sofferenza. Al di là delle loro fragilità chi sono e cosa rappresentano realmente le tre protagoniste e quanto può il loro libero arbitrio salvarle da un mondo che, nonostante tutti i loro sforzi, sembra restare a loro estraneo oltre che implacabile e crudele?
Rappresentano tre vite nel medesimo punto di caduta. La solitudine e la mancanza di relazioni affettive che le accomuna parrebbe condannarle a una prigionia esistenziale, a un luogo di non recupero. Invece quello che succede, la corresponsabilità in cui si ritrovano invischiate per una serie di circostanze un po’ nefaste, la necessità di difendersi da accuse che ritengono infondate interrompe la loro autoflagellazione morale. Cominciano a difendersi innanzitutto dal proprio implacabile giudizio e poi da quello degli altri, fino ad assolversi e non senza un’ ironia provvidenziale e salvifica, addirittura brillante.
I destini delle tre donne, forse solo apparentemente distinti, si incrociano e s’intersecano inevitabilmente e implacabilmente. Trait d’union il commissario De Sanctis, figura maschile a simboleggiare una sorta di coro della tragedia greca e insieme la voce e lo sfondo di una città, uomo di legge particolarmente preciso e zelante nel suo lavoro che nella fitta ragnatela degli eventi dipanerà i nodi cruciali di questa vicenda là dove emergeranno le singole responsabilità riguardanti l’incidente occorso alla giovane masochista. La sincronia degli eventi non darà scampo a nessuna di loro. Messe di fronte alle proprie responsabilità, alle mancanze che sarebbero potute risultare fatali, le protagoniste, cadute in una insostenibile trappola morale, insorgono e si dibattono e anche se di fatto libere i loro destini sembrano non riuscire a redimersi. C’è una colpa, qualcosa di ineluttabile, di incontrovertibile nel destino di ognuno di noi, una sorta di peccato originale che non si può in alcun modo mondare?
Non penso si nasca perfetti. Puri, inconsapevoli, innocenti sì, ma non perfetti. Nasciamo umani e dunque decisamente perfettibili. Il maggior difetto è la mortalità. Talvolta si cerca di esorcizzarlo con una tensione morale tesa al Bene, altre volte si vive come se ci fossero infiniti domani, narcotizzati dall’immanenza. Personalmente ho aderito da tempo a una visione trascendente. Non c’è attualmente nessuna scienza che mi possa dimostrare l’inesistenza di un Dio così come non ce n’è alcuna che mi possa dimostrare il contrario. Nell’incertezza, facendo tesoro del libero arbitrio, preferisco credere che ci sia. Che ci sia un Dio, quello dei Vangeli. E comunque, nonostante la fede, non posso fare a meno di notare la disparità, le ingiustizie, i torti e le malvagità. Mi è difficile credere nel martirio e nel peccato originale come radice dell’infelicità, eppure esistono vite che non riescono a liberarsi di catene ancestrali. O forse chi le vive difetta in autodeterminazione. Non so. Francesca probabilmente continua a pensare che il destino avverso le sia dato come punizione divina per il fatto che pratica magia; è ossessionata dalle pagine del vecchio Testamento in cui si aizzano le fiamme infernali contro coloro che hanno l’ardire di predire il futuro. Elena, invece, si sente condannata dal passato, da coloro che non hanno riconosciuto il suo talento e il suo valore. A Monica basta guardarsi allo specchio per convincersi di essere stata punita nelle sembianze e di doversi dunque umiliare. La mia intenzione era comunque quella di portare ognuna di loro a una nuova consapevolezza.
Come la musica dello stereo che continua a funzionare nella macchina incidentata della giovane masochista, anche la città di Roma esercita una funzione diegetica in questo romanzo. Che cosa rappresenta per lei la città di Roma, testimone silente che sembra diventare un corpo vivo, nel centro come nella periferia?
Roma è densità di bellezza anche nelle sue zone meno rinomate. Ammalia così tanto gli occhi di chi la percorre che per le strade si può camminare senza sentirsi osservati né tantomeno giudicati. Si è spesso rapiti dal caos cosmopolita e nello stesso tempo, paesano. A me, camminare su e giù per i suoi colli dà ancora una carica che non trovo in altre città. Probabilmente perché è stata agognata per tutta l’adolescenza.
La figura del commissario De Sanctis merita un approfondimento. Alter ego, in qualche modo, contraltare delle tre protagoniste, paladino della giustizia, appare, a sua volta, un uomo solo alla ricerca spasmodica di una sua verità. Cosa rappresenta la visita che decide di intraprendere nella Klimahaus (Casa del Clima) di Brema? Una sorta di catarsi, di viaggio interiore alle prese con i suoi demoni e le sue paure?
Esatto. Il Commissario De Sanctis si infila nei meandri della Casa del Clima di Brema per esorcizzare la propria impotenza senza sapere che ne uscirà ancora più ammaccato nell’orgoglio. Senza sapere che quel viaggio tra le simulazioni di clima di diverse parti del mondo, risveglierà debolezze che pensava di aver neutralizzato. Senza sapere che la visione di quei paesaggi sopraffatti accentuerà il sapore amaro del suo insuccesso.
Quali sono i suoi programmi futuri?
Per ora, sto scrivendo una commedia teatrale che dovrebbe essere rappresentata alla fine del 2024 e lavorando sulla trasformazione di “Trappola morale” in soggetto cinematografico. Nel frattempo ci sono spunti di narrazione che mi vengono spesso a punzecchiare, ma che per il momento non sono ancora in fase di elaborazione.
[Premio speciale della giuria della seconda edizione del concorso letterario “Il silenzio uccide” – Associazione “Il Guscio” contro la violenza di genere -Roseto-366 905 9042]
Ero in piedi davanti al letto, come il primo giorno all’Hotel Hedera. La stanza odorava di naftalina, piccole crepe screziavano le pareti di un bianco panna. Dalla mia posizione vedevo l’armadio aperto, la manica blu della camicia che spuntava indiscreta dall’anta rotta. Ogni elemento era difettoso: il tavolo zoppo, la bruciatura di sigaretta sul copriletto sintetico. Tutto. Persino i gesti. «Ho chiamato Adriano, ti viene a prendere alla stazione» Sembrava brutto ribattere, con la valigia d’addio già pronta alla porta. Ho ravvivato i capelli, il sebo delle radici mi umettò i polpastrelli. Avvertivo un senso di inadeguatezza, una sospensione molle tra il sollievo e la vertigine. Stavo in piedi come il primo giorno vedendo passare i lampi della mia storia, nove mesi con Dario chiusi in una stanza, circondati da moquettes polverose e paralumi Ikea, con orribili bagni ciechi ad accogliere i nostri umori. Non ricordo l’orario, ma so che gracchiavano i corvi. Il verso era perforante, il requiem di un amore imputridito, costruito sui cocci della solitudine, sul ciarpame dei giorni. «Non ho dove andare» «Non è un mio problema». Mi avvicinai alla finestra. Il palazzo di fronte era un muro soffocante. Pensavo alla vita dietro le finestre, la luce degli abat-jours velata delle tende. Mi immaginai seduta a tavola, davanti a un piatto di minestra e con un marito in tuta grigia, gli sguardi stanchi prima di chinarsi sul piatto. Felici, arrabbiati. Una vita come tante. Pensavo che ero fortunata a chiuderla lì, a farmi raccattare dal fratello in via Giolitti per poi cercare una sistemazione, libera dalle notti coi piedi gelati, dal russo smodato virante al rantolo. Era la prima volta che Dario cedeva. Ogni volta un grido, un’umiliazione, quel suo modo di guardarmi mentre fumava il mentolo, con gli occhi freddi da soldato, le labbra atteggiate a un sorriso beffardo. Non si è alzato dal letto, le braccia coperte di peli increspati sbucavano dal lenzuolo. Sembrava più vecchio, in perenne affanno. «Guarda che sei niente, Lorenza». Il pugno rimbombò sul materasso. Era un urlo di frustrazione, l’ansito del cane ferito. Scattò in piedi, mi spinse a terra, gli orecchini d’ambra si divincolarono dai lobi. Le voci contrastanti che agitavano la mia psiche sotterrarono i colpi. Le mani, i piedi, la coscia tirata, tutto bruciava e si anestetizzava, come fossi sott’acqua. Dario colpiva le costole, gli zigomi sporgenti. Colpiva la diversità, la ribellione, le catene recise. Ammazzami, pensavo, ammazzami così è finita. «Scusa Lorenza, scusa, non succederà più». Mi vergognavo dei miei pensieri, sentivo le lacrime che rigavano il viso, la voce pronta a spezzarsi e il dolore che è tutto qui, tra la glottide e gli occhi. Di nuovo mi chiedevo che cosa facessero i vicini, che cosa ne fosse delle altre coppie che avevano vissuto lì dentro, che avevano pianto come noi. Che si erano amate più di noi. Rassettai l’abito di cotone, ormai solcato da grinze. Mi parve di udire un lamento, l’eco di un altro tempo. Non avevamo più nulla da dirci.
Giovedì 23 novembre alle ore 17,00 presso la Biblioteca “Gianni Rodari”di Roma in Via Tovaglieri, 237 a la nuova presentazione del volume bilingue italiano-francese di Juliette Seina Deweze Gontran lo spazzino Gontran le balayeur con le illustrazioni di Valentina Baldazzi e Vladimir Liad edito per i tipi di Cultura e dintorni Editore. La presentazione sarà caratterizzata e animata da letture interattive e performance dal vivo di marionette a filo con il pittore-marionetta Vladimir Liad, il pittore più piccolo del mondo, guidato dalle sapienti mani della sua creatrice Valentina Baldazzi.
per ulteriori info sulla disponibilità del volume scrivere a: redazione@culturaedintorni.it
Intervista a Paola Maria Liotta a cura di Luca Carbonara
Paola Maria Liotta, lei è una scrittrice di vaglia, particolarmente prolifica e poliedrica che ha saputo coniugare ricerca stilistica e semantica sviluppando e declinando il suo personalissimo stilema in una scrittura che è sia poetica che narrativa. Come nasce Paola Maria Liotta poetessa e scrittrice e qual è stato il suo percorso formativo? Credo che la mia inclinazione per la scrittura, e prima ancora per la lettura, sia germogliata in me fin da bambina. Mi sono sempre piaciuti i libri, anche annusarli, vederli, toccarli; passare a leggerli è stato naturale, come l’atto stesso di respirare, o di bere un bicchier d’acqua… Sappiamo tutti, però, che non esiste scrittura senza tante letture a monte. Ho sempre assecondato il mio desiderio di scrittura ma, prima di tutto, il vero piacere, un godimento vero e proprio, è stato quello di leggere leggere leggere. Poi, un giorno, è accaduto il prodigio: dalla penna, sul foglio, sono emersi i miei personaggi, le loro vite altrettanto vivide, come se io fossi da sempre immersa nelle storie che narravo e le portassi alla luce dal limbo in cui giacevano. Quando ciò accade, è commozione fortissima. Per quel che concerne i miei studi, dal Liceo Classico alla Facoltà di Lettere è stato un passaggio d’elezione, e la formazione continua tuttora; l’impegno professionale consente di dare ulteriore vigore alle spinte creative, di pari passo con la volontà di ricerca, di confronto, di comunicazione e diffusione della cultura.
Quali ritiene essere stati i suoi buoni Maestri e i suoi più importanti riferimenti letterari? I miei “buoni maestri” sono stati in primo luogo in casa: i miei genitori hanno dato importanza ai libri, a ciò che alimentava lo spirito, non al superfluo. I miei giochi consistevano sempre nel creare qualcosa da me, e nell’inventarci su un dialogo, un intreccio. Fra gli autori, e sarebbero in tanti quelli che potrei citare, i miei preferiti sono stati i Classici. Ho spaziato per le letterature di vari Paesi, di tanti periodi. Citerei, poi, fra le autrici, giusto alcuni nomi, Anna Banti, Marguerite Yourcenar, Melania G. Mazzucco, lsabel Allende, e poi le poetesse di ogni epoca, dall’antichità a oggi, Saffo e Nosside in testa. Ho molto amato Yehoshua. A una ragazza, a un ragazzo, suggerirei sempre di partire dai Classici. Lì c’è già tutto ciò che è stato detto dopo.
Un filo invisibile attraversa le sue opere a sottendere da un lato il suo forte sentire, che si rivela essere un’irresistibile quanto irrinunciabile tensione vitale, quasi parossistica, quell’amore incondizionato che tutto imbeve e move il sole e l’altre stelle, dall’altro il manifestarsi della più alta espressività umana, nella sua tensione più ideale e divina, che è il compendio delle arti della musica e della pittura – in particolare nei suoi romanzi Piano Concerto Schumann e Casa Manet Sonata per Suzanne – così come dell’incrocio fra mito e realtà, si legga in Al mutar del vento. Quali sono le sue fonti di ispirazione e quali sono gli archetipi della sua ricerca in ambito musicale e nell’ambito del linguaggio figurativo? Come per la letteratura, le fonti di ispirazione sono davvero tante, se guardiamo sia al vasto campo dell’arte sia all’attualità. La prima grande fonte di ispirazione è il reale, in tutta la sua variegata sostanza, in cui trasfondo e colgo emozioni, curiosità e sentimenti che mi sono propri. E, con il reale, la Storia, le storie piccole e grandi di cui è intessuto. Senza ‘forte sentire’, poi, non esisterebbe Paola, cioè le passioni che mi connotano, i sentimenti che mi animano, gli interessi che mi attraversano, permeano, danno senso giorno per giorno. Tutta la musica è per me fonte d’ispirazione, così come l’arte.
Dal suo ultimo romanzo pubblicato quest’anno da Readaction Casa Manet. Sonata per Suzanne prorompe la sua predilezione per il romanzo storico. Cosa l’ha spinta in questa particolare direzione e in quel particolare contesto storico così tumultuoso, fremente e foriero di cambiamenti in una città, la Parigi di fine Ottocento, al massimo del suo splendore, tramata di fermenti artistici, contrasti politici e ideali, frequentata dai più grandi geni della poesia, della letteratura, della musica e della pittura? È, la Storia, un eterno presente? Un contesto così ricco e complesso ha indubbiamente determinato l’interesse per le figure che lo animavano. La mia prima idea non era di scrivere di Suzanne; man mano, però, è cresciuto il desiderio di darle voce, giacché tornava con insistenza, fra le pagine dei libri che avevo per le mani, il suo nome insieme con quello di Édouard Manet. Alla fine ho raccolto la sfida, Suzanne Leenhoff meritava il dono della parola, lei che doveva essere stata il porto e la bussola di Manet, fra i tanti bassi e i pochi alti in cui lui dovette barcamenarsi. Suzanne ha creduto in Manet e nella sua arte, ed è stata il punto fermo della sua vita. La Storia, in fondo, non è che uno specchio in cui leggere il nostro presente, ma anche il nostro futuro; e non per pigro determinismo, ma per le costanti che la attraversano, insite nell’animo umano. La Storia insegna, se siamo disposti a leggerne le lezioni. La lezione di Suzanne è stata quella di un amore assoluto, semplice e forte come lei. Ed è, la sua, una storia nella Storia di un’epoca, di un mondo che non sono poi così lontani da noi, cui noi dobbiamo molto.
In Casa Manet. Sonata per Suzanne una qualificazione, una determinazione, un’aggettivazione di un topos per eccellenza e, nel sottotitolo, una dichiarazione che è a un tempo d’intenti e di amore, si fondono in uno stesso ispirato titolo, il frutto di un vero stato di grazia, la viscerale quasi carnale passione per la pittura e per la musica e i protagonisti testimoni di un amore unico. Ma, soprattutto, è la celebrazione di Suzanne, colei che questo amore ha incarnato fin nelle sue viscere. Un romanzo dunque al femminile, nonostante emerga monumentale la figura di uno dei più grandi artisti e pittori di tutti i tempi Édouard Manet, in cui si stagliano cristalline figure di donne coraggiose, volitive e ricche di talento, desiderose di autodeterminarsi e di vivere liberamente e con passione la propria vita. Quanto è moderna e attuale la figura di Suzanne, pianista di talento, che pur continuando a coltivare la passione per la musica dedicò la sua vita all’amore prima e al ricordo poi di Manet? Suzanne è proprio una di noi, con le sue fragilità, la sua cieca fiducia nell’altro, il suo coraggio di accettare le differenze e di elaborarne le asperità grazie alla musica e all’amore. È stata una giovane donna dinamica, pragmatica, che dall’Olanda si è recata a Parigi e lì ha vissuto, dando lezioni di pianoforte, questo è un dato certo, inconfutabile. Ma è stata anche una grande pianista, i conoscenti ne esaltavano le doti alla tastiera, paragonandola a un angelo. Oggi magari non avrebbe rinunciato alla passione per la musica, per quanto lei vi rinuncerà soltanto nel versante pubblico, cioè dei concerti, non in quello privato. È comunque una figura attuale, la sua, per la coerenza, per il coraggio, nell’adesione profonda a quei principi di vita che la rendono granitica, devota, serena, al fianco di Édouard. Lo ama in modo assoluto, e questo amore è fonte di salvezza, di cambiamento, di speranza.
Se attraverso la rilettura del passato offerta dalla lente di ingrandimento della sua scrittura e della sua indagine storica così precise e analitiche è possibile entrare in punta di piedi nella magia di Casa Manet, fantasmatico crocevia di vite e di talenti artistici straordinari che rivediamo e ascoltiamo perfino ai concerti, alle esibizioni e alle esposizioni, come quelle che si tenevano al Salon, imbevendoci della magia e della bellezza di quel mondo in trasformazione, allo stesso modo assistiamo e partecipiamo alle intense vite dei protagonisti fatalmente condizionate dalle rigide regole del perbenismo borghese e delle convenzioni: la relazione tra la stessa Suzanne, approdata come insegnante di musica in Casa Manet, ed Édouard Manet celata al severo giudice padre del grande artista, la nascita tenuta segreta perché fuori dal matrimonio del loro figlio fatto perciò credere loro figlioccio. Qual è il grado di libertà raggiunto oggi dall’essere umano e cos’altro può insegnarci quel passato così ricco e fecondo di talenti artistici e geni visionari? Direi che l’unica grande lezione che se ne possa desumere è quella di trarre spunto dai propri trascorsi e di vivere con responsabilità e fino in fondo il presente. Suzanne dovette sicuramente affrontare disagi e problemi che le convenzioni sociali e le regole di un mondo patriarcale non le risparmiarono, forse anche delle umiliazioni. Seppe resistere alle indubbie traversie della vita con fermezza e serenità, che è la stessa che cogliamo nei ritratti che le fece Manet. Di sicuro esercitò sul giovane Manet, e poi sull’uomo maturo e, alla fine, malato e dolente, un ruolo determinante. Quanto al passato, insegna nella misura in cui noi ne accettiamo sia la lezione sia la sua distanza da noi. Invece, per Suzanne non esiste il passato, esiste il presente di un amore assoluto, oltre cui lei non vede più niente.
A lettura conclusa di questo affascinante e coinvolgente romanzo (un romanzo anche sulla pace e sulla guerra), uno splendido e sontuoso affresco di un’epoca ricco di echi e di rimandi, dai pittori del Secolo d’Oro olandese, ai grandi Maestri della Musica, della Pittura, della poesia e della scrittura, da Listz, a Pissarro, a Cézanne, a Baudelaire, a Zola e alla sua Nanà, resta impressa una duplice chiave di lettura: da un lato una nuova visione del mondo pervicacemente perseguita da Édouard Manet, tra i capofila di quella nuova scuola pittorica allora nascente, l’Impressionismo, che rovesciò i canoni di lettura e di interpretazione del Reale, dall’altro il respiro salvifico della musica che permea e imbeve di sé ogni istante della vita in tutte le sue forme ed espressioni. Ciò che Suzanne chiamava “dare corpo e pensiero al suono”. Qual è il suo rapporto con la realtà e quali sinestesie si possono attivare per rendere più umano, più autentico e più vero il nostro rapporto con la realtà che ci circonda? Manet apre le fila di un nuovo scenario, ne è cosciente, per esempio, non accetta di esporre al di fuori del Salon con gli Impressionisti, vuole andare fino in fondo, portando il reale sulla tela. Lui è la sua arte, la sua pittura, così come per Suzanne musica e vita diventano un unicum. Credo che la scrittura possa esemplificare al massimo grado il mio modo di vivere: musica e parole, colori e pennelli, la realtà non vuole essere pedissequamente copiata. Chiede, invece, di essere vissuta con consapevolezza, audacia, curiositas, e con quella creatività che illumina appunto i meravigliosi sentieri dell’arte. E la scrittura, fatta di grandi ideali, aspettative mancate, voli pindarici, gorghi e abissi insondati, sintetizza a pieno il percorso della vita, di ogni vita vissuta con intensità e vigore: un andare cercando, senza fermarsi mai.
Quali sono i suoi programmi futuri? Tanti, ma così tanti, che forse non basterebbe questa pagina. La scrittura, come sempre, è uno dei percorsi che amo di più. Grazie a voi dell’intervista e di queste belle domande, piene di rimandi e di acute osservazioni, che sono frutto, è evidente, di una lettura approfondita, partecipe. E questo è il riscontro ideale, per chi scrive.