OMAGGIO A GIANNI CELATI, narratore, camminatore, giocoliere, fantasticatore.
a cura di Dafne Leda Franceschetti
«Chi è Gianni Celati?», si domanda Marco Belpoliti, nel testo che introduce il Meridiano recentemente dedicato a Gianni Celati, da lui curato assieme alla collega Nunzia Palmieri; il saggio in questione s’intitola La letteratura in bilico sull’abisso, titolo perfettamente adatto per presentare un autore in rapporto controverso con la Letteratura. Nel Meridiano, la massima glorificazione letteraria nel nostro Paese, è definito un «outsider», ma paradossalmente quest’intellettuale laterale e multi-verso viene assunto al rango di classico.
Celati può essere certo detto un «outsider», un unicum, per innumerevoli motivi, a partire dalla sua natura anfibia: da un lato si è trattato di uno scrittore tra i più colti ed “ammalati” di bibliofilia della letteratura del Novecento, ma allo stesso tempo è stato colui che per anni ha distrutto con l’ironia del satirico i miti di ieri e di oggi, svelando quella frammentazione dei saperi che si (mal)cela dietro a un’immagine intera e monolitica della realtà, e soprattutto tentando con la passione dell’archeologo di riportare alla luce, in barba ad ogni gerarchia, le microstorie e tutti i prodotti culturali spazzati via dalla Tempesta del progresso di benjaminiana memoria.
Il suo «eroe» è stato Don Chisciotte, l’hidalgo nato dalla penna di Cervantes, «martire degli eccessi della passione romanzesca, che passa imperturbato attraverso le censure della critica, ossia degli intenditori che vorrebbero ricondurlo sulla retta via», il simbolo della «follia per identificazione romanzesca», prendendo in prestito le parole di Michel Foucault, è stato per certi versi lo specchio di Celati, uno scrittore amante dei libri che insegue le proprie fantasie, o, per dirla con il lessico da lui stesso coniato, le proprie «fantasticazioni». Eppure questo ritratto è ancora assai riduttivo.
Lo scrittore nato a Sondrio, ma emiliano di adozione, ha esordito sulla scena letteraria nella seconda metà degli anni Sessanta, apparentemente sotto l’ala della Neoavanguardia, ed il suo debutto come saggista e narratore è stato all’insegna di un originale sperimentalismo linguistico, che guarda piuttosto a Céline, a Joyce e a Beckett. Il suo primo interesse è stato il linguaggio, i suoi aspetti sintomatici, i manierismi e con tutta la sua potenzialità sovversiva; tra le sue pagine ha raccontato d’aver subito la malia, nei primi anni universitari, della linguistica saussuriana e dello strutturalismo, eppure si è dimostrato molto presto incapace di sottostare a tanto rigide regole testuali. Il suo cammino laterale lo ha portato all’incontro con la lingua dei pazzi, dei bambini, con le parlate dialettali e sgrammaticate dei proletari, quei linguaggi ancora in grado di dimostrare la naturalezza e la spontaneità ormai quasi perdute nella narrativa che si trova nelle librerie. La sua scrittura è inimitabile, poiché frutto degli stimoli più disparati, sintomo di un’incredibile apertura mentale, di una capacità di entrare in tutti gli spazi extra-letterari con la stessa curiosità, dal cinema, alla fotografia, al teatro, alla musica, all’arte, è una scrittura che mira a mantenere i colori brillanti del parlato ed uno spessore corporeo.
Un ritratto ancora riduttivo di un intellettuale-professore capace di animare seminari straordinari e «matti» (come direbbe lo Cheshire Cat di Carroll) che hanno lasciato tracce in tutta una generazione, da Pazienza a Tondelli, da Freak Antony a Bifo; ha camminato, fotografato, diretto, attraversando mezzo mondo, dall’America dei beatnik alle padane terre metafisiche avvolte nella nebbia, per finire sulle bianche scogliere a picco sul mare.
Un uomo, un narratore le cui pagine e parole mi hanno cambiata nel profondo, mi hanno alleggerita – cosa non facile – e mi hanno dato la possibilità di incontrare, tra Francia e Italia, persone bellissime, grandi studiosi e studiose che onorano ogni giorno ed in maniera sopraffina la sua opera.