L’apodittica nemesi di un “cuore di serpente”. Intervista a Giovanni Montini

L’apodittica nemesi di un cuore di serpente

Intervista a Giovanni Montini

a cura di Luca Carbonara

Lo scrittore Giovanni Montini

Leggendo la sua biografia e le principali tappe che hanno scandito e segnato il suo personale percorso di vita e di formazione si evince una spiccata quanto vivace personalità tutta volta alla conoscenza dell’uomo nelle sue caratteristiche di “animale” sociale eternamente scisso nella perenne dicotomia dell’essere e dell’apparire. Come nasce in lei l’interesse a indagare l’uomo, meglio l’animo umano, nel suo essere a un tempo puro istinto, fredda ragione e inesauribile fucina di sentimenti?

La copertina del romanzo di Giovanni Montini Cuore di serpente

L’umanità, nelle sue fragilità e contraddizioni, rimane un campo d’indagine straordinario. Dietro un’esitazione o uno sguardo possono nascondersi sogni, segreti, ambizioni, fallimenti. Tutto nasce da qui, dal desiderio di scrutare l’animo in ogni sua sfaccettatura. Ciò mi consente anche di calarmi in situazioni che nel mio quotidiano non potrebbero mai accadere. E la scrittura rimane uno strumento eccezionale nel far convergere tante emozioni in una pagina.

Cuore di serpente (Bertoni Editore, 2022), il suo terzo romanzo, per la ponderosità della trattazione e la varietà e complessità dei temi e degli argomenti trattati appare essere come l’opera della sua più piena maturità sia come uomo che come autore. Qual è stata la genesi di quest’opera e, prima ancora, come nasce in lei la passione per la scrittura?

Cuore di serpente nasce durante il primo lockdown, nel marzo del 2020. In quei giorni di smarrimento e inquietudine, la storia ha cominciato a prendere forma. Quel senso di claustrofobia avvertito su di me, è stato riversato in parte sui protagonisti: anche loro si muovono per la maggior parte del tempo al chiuso, nella villa del Circeo. Volevo scrivere un romanzo sulla passione e su quali scelte, a volte dolorose e imprevedibili, può farci compiere e fino a quale punto siamo disposti a rinunciare o a pretendere nel nome dei sentimenti.

Più che una passione, per me scrivere è un vero e proprio matrimonio, con le sue regole, rinunce, ripicche, slanci. A volte la odio e vorrei separarmene, non pensarci più. Altre invece non riesco a farne a meno, rivelandosi irrinunciabile. Come una vecchia coppia di coniugi che si amano e si detestano ma che non si separerebbero mai. 

Il suo ultimo romanzo chiama in causa una serie di archetipi, in primis il male, il maligno da sempre di gran lunga più attrattivi e seduttivi del bene, di simboli e di topos metaletterari che concorrono, attraverso gli escamotage come gli strumenti e le invenzioni offerti e messi a disposizione dalla scrittura narrativa, a fotografare l’uomo, e, per estensione, l’umanità, scandagliandone, in particolare, come un palombaro dell’anima umana, i suoi lati più oscuri, i recessi e gli abissi più nascosti e profondi. Da dove nasce l’impellenza di questa sua istanza e/o necessità?

Mi piaceva l’idea di analizzare quel sottile e labile confine tra il bene e il male. Cosa veramente può essere considerato malvagio e cosa no. Descrivere le pulsioni, anche quelle più segrete e inconfessabili, per mostrarne la meschinità. Sondare l’amicizia nelle sue infinite combinazioni, rivelandone i limiti e le contraddizioni. Il punto di partenza è stato quello di scrivere un romanzo ‘cattivo’.

Cuore di serpente, un romanzo fortemente, anzi quasi ossessivamente, visivo, cinematografico, come taglio e come scrittura, affonda le sue radici e vede nella piscina il suo topos per eccellenza (chiarissimo il voluto riferimento e richiamo all’illustre precedente, il celebre film La piscina di Jaques Deray). Attorno a questo luogo simbolo di così forte evocatività si ritrovano a ruotare i fantasmi della borghesia, della sua mortifera noia, della sua agonia, delle sue frustrazioni, delle sue più turpi perversioni, e una fredda e pesante aria di morte. Perché la scelta di quel decennio tragico degli anni Settanta del secolo scorso come palcoscenico storico e ideale dei protagonisti del suo romanzo e davvero, come fa dire a uno dei protagonisti, “il vero amore non può essere che tragico”?

Mi tentava di scrivere una storia in cui non ci fossero le contaminazioni dei telefonini, dei social, di internet. La scelta è caduta sugli anni Settanta perché è un periodo di forti contrasti, incoerenze. Pensiamo al cinema di quel periodo. Da una parte Bertolucci, Bellocchio, la Cavani, con i loro lavori controversi, illuminanti, coraggiosi. Dall’altra una produzione cinematografica giocosa, scollacciata, boccaccesca. Un paese diviso. Tutto ciò ho cercato di riversarlo nel romanzo. Le forti differenze si ripercuotono sui personaggi, determinandone le scelte e i pensieri.

Giulio, Alberto, Gabriele, Francesca, Andrea, Jonathan, Peter, gli umani, umanissimi protagonisti del romanzo della sua piena maturità nella dinamica come nell’intreccio delle loro parabole esistenziali richiamano l’archetipo dell’ospite inatteso, esteriore e interiore, quell’elemento scandalosamente perturbante che sconvolgerà per sempre e nel modo più tragico, come mina deflagrante, le loro esistenze. Riferimenti i paradigmi rappresentati da un lato dall’ospite inatteso di Cocktail Party di T. S. Eliot, dall’altro dall’elemento perturbante della deflagrazione delle vite di tutti i protagonisti di Teorema di Pasolini provocata dalla perdita dell’incarnazione dell’amore e del desiderio. Che cosa sottintende questa figura cardine e misteriosa, impersonata nel suo romanzo dal giovane Gabriele, dal cuore di serpente, e a quale ineluttabile destino dell’uomo rimanda? C’è in ognuno di noi un ospite inatteso, un sordido e oscuro richiamo nei recessi più nascosti della nostra anima?

Ognuno di noi nasconde un ospite inatteso o ne attende uno. È la parte più oscura del nostro intimo, quella più recondita, ma che maggiormente ci affascina. È colui che ci obbliga ad affacciarci sull’abisso, per sentirne la paura. Spesso lo identifichiamo nell’altro, nel diverso, nello straniero. Un colpevole a cui dare un nome. Gabriele è il personaggio meno sinistro del romanzo, oserei definirlo il più sincero. Custodisce un segreto e ha un compito da portare a termine: ristabilire un ordine, il suo ordine. La sua ambiguità, la ferocia, il manipolare le persone, hanno un unico fine. A differenza degli adulti, ingabbiati in un ruolo, e consapevoli delle loro mancanze e nefandezze ma ipocriti nel rivelarle.

A quale dei personaggi così bene tratteggiati e tipizzati sente di somigliare di più?

Tutti i personaggi mi appartengono e custodiscono una parte di me. Ho condensato in ciascuno di loro qualcosa di mio. La scrittura è un mezzo che ti consente di poterlo fare.

Quale può o deve essere oggi il ruolo dello scrittore e, per estensione, dell’intellettuale?

La funzione dello scrittore, a mio avviso, è quella di sollevare domande, indurre alla riflessione, anche a costo di sostenere posizioni scomode. Portare avanti idee a volte controcorrenti. Non fermandosi mai alle apparenze ma osservando con occhio critico e oggettivo ciò che lo circonda.

Quali sono i suoi programmi futuri?

Sto terminando un romanzo che parla di un argomento scomodo, di cui non vuole parlare nessuno: l’utilizzo di sostanze stupefacenti nel sesso.

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