Intervista a Renzo Di Renzo
a cura di Luca Carbonara
A lettura ultimata di questa tua ultima fatica letteraria, un piccolo scrigno a un tempo di verità, bellezza e saggezza, a ricordare una preziosa quanto rara plaquette, Ritratti veri di persone immaginarie, silloge edita da Helvetia Editrice, a ben ragione inserita nella collana “Taccuini d’autore”, non si può non rimanere assorti a ripercorrere e a rivivere, come fossero fotogrammi riavvolti di una pellicola, la carrellata di personaggi protagonisti di queste rapide pennellate di sguardi e di parole. A colpire subito è infatti la commistione e la contaminazione dei linguaggi, figurativo/visivo e letterario, proposti in un mutuo e proficuo dialogo. Qual è stata la genesi di questo progetto editoriale?
Quando studiavo pianoforte ero innamorato di Erik Satie. Al di là del personaggio, mi incuriosiva il suo approccio alla musica in connessione con le altre arti. Parade è una vera e propria opera “sinestetica” in cui la musica di Satie si mescola ai testi di Cocteau, alla scenografia e ai costumi di Picasso e infine alla coreografia e all’azione scenica dei Balletti Russi di Djagilev. Ma anche più banalmente, nel breve excerpt sul frontespizio dello spartito di Sports et Divertissement Erik Satie sottolineava come quella pubblicazione fosse composta di due elementi artistici: disegno, il pentagramma, e musica, il suono. Questa contaminazione di segni e linguaggi è nella natura stessa dell’uomo e dei nostri sensi e mi ha sempre affascinato, anche nel mio vecchio lavoro di Direttore Creativo a Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione del Gruppo Benetton.
Avevo già scritto tre libri con immagini per bambini, ma allora le immagini erano venute dopo, a “illustrare” appunto il testo. In questo caso il procedimento è stato inverso: sono venute prima le immagini e poi il testo a commento, non una didascalia o spiegazione, ma una sorta di estensione di quelle immagini sotto altra forma, con un altro linguaggio appunto. Mi sono lasciato ispirare da quei volti semplicemente guardandoli, come mi capita spesso anche in un autobus o in treno, guardando i visi di chi mi viaggia accanto e immaginandomi le loro vite. Quei di-segni di Camuffo erano dei “segni”, appunto, che rappresentavano già una storia, ritratti “scarnificati” letteralmente, privati della carne e perciò in qualche modo resi mistici, iconici, ridotti all’essenza. La stessa cosa che io ho provato a fare con le parole, partendo da un testo molto più lungo e poi via via togliendo, costringendomi entro un numero di battute in grado di stare in una facciata, per arrivare all’essenziale, come insegnava Bruno Munari: Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più della scultura che vuol fare. È stato un esercizio di privazione, a suo modo mistico, ascetico, ma anche molto divertente: un “divertissement” anche questo, in fondo, per ritornare a Satie. E naturalmente, per completare quell’attitudine “sinestetica” cui anche accennavo all’inizio, era poi necessario che questo piccolo libro avesse una sua forma, una sua grafica e un suo design per gli occhi, la carta ruvida al punto giusto per sollecitare i polpastrelli delle dita nel voltare le pagine, e il suono che questo produce: tutte cose che questa piccola collana di “Taccuini d’Autore” di Helvetia – che hai definito rara e preziosa, e di cui bisogna dare merito a Daniela Spagnol e Roberto Ferrucci – soddisfa a pieno.
In che misura e in che termini la tua ricca e variegata produzione, che è insieme artistica e letteraria, e di conseguenza la tua “visione”, è stata influenzata dalle tue molteplici attività, in ambito accademico e non solo, di studio e di ricerca da un lato nel campo della comunicazione dall’altro in quello articolato dell’immagine, del design e della poesia?
Credo che, al di là della contaminazione dei linguaggi di cui abbiano parlato, la parola “comunicazione”, che giustamente hai citato nella domanda, contenga già la risposta. Comunicare significa “mettere in comune”: non basta parlare, scrivere, disegnare, suonare per comunicare; occorre che quello che fai arrivi a destinazione, abbia in qualche modo un pubblico, anche una sola persona. Se insegno devo riuscire a trasferire qualcosa ai miei studenti. Se sviluppo una campagna pubblicitaria devo poter colpire un “target”, come si dice nei libri di Marketing con un pessimo termine e una pessima metafora. Se scrivo, e soprattutto se decido di pubblicare quello che scrivo, devo poter credere che ci sia almeno un lettore disposto e interessato a leggere quello che ho scritto (Manzoni parlava dei suoi venticinque lettori, io in proporzione non aspiro che a uno).
In fondo anche le diverse discipline, i diversi lavori che faccio e ho fatto, non sono che altrettanti strumenti per esprimere qualcosa: quello che contano sono le idee, gli strumenti vengono dopo; i sentimenti, le emozioni restano sempre gli stessi, dall’inizio dei tempi ad oggi, mentre cambiano i modi e gli strumenti per esprimerle. Certo, il media è il messaggio o il “massaggio” come scriveva McLuhan, influisce, produce comunque un effetto diverso, ma il dato di partenza, la causa, è la stessa, e se non c’è un’idea, un’emozione, l’effetto è nullo.
A parte questo, io mi sono sempre rifiutato di dare alla mia scrittura la dignità di “mestiere”. Non sono uno “scrittore” ma solo uno che scrive e pubblica dei libri, un dilettante nel vero senso della parola. Fortunatamente non devo guadagnarmi da vivere con la scrittura e questo mi permette anche di scrivere e pubblicare solo quando ho qualcosa da dire e solo quando mi diverto e ho voglia.
È evidente la tua straordinaria capacità di “vedere” oltre i contorni delle cose fisicamente tangibili ed esperibili: ma che cos’è per te la realtà e in che cosa consiste la tua effettiva osservazione? In quanti e quali piani si può suddividere la sua “lettura”?
Quando si dice che “un’immagine vale più di mille parole” si fa un’affermazione in parte falsa, perché un’immagine tende a definire una cosa nella sua realtà oggettiva, mentre la parola, anche la più precisa, ammette sempre un margine di errore e lascia più spazio, paradossalmente, all’immaginazione. Senza volerci addentrare troppo sulla solita questione della realtà e della sua rappresentazione (“questa non è una pipa” per citare Magritte), se vedi la fotografia di un sasso, quello è: ha una sua forma e un suo colore preciso. Ma se io dico o scrivo la parola “sasso” posso immaginarmelo in mille forme e colori diversi. La scrittura è un’arte molto più democratica, ad esempio, del cinema o delle serie televisive tanto in voga, in cui un regista esercita la sua particolare forma di dittatura; e per questo la scrittura è anche più difficile da fruire, meno popolare, perché richiede più impegno, il coinvolgimento attivo del lettore. Quante volte alla domanda “hai letto questo o quel libro?” ci siamo sentiti rispondere “no, ma ho visto il film!”. Ecco, tutti quegli “spettatori” passivi non sanno di aver visto solo una versione della storia, non sanno cosa si sono persi, quali sfumature poteva avere la parola “grigio” che lo scrittore o lo sceneggiatore aveva usato per descrivere il colore di un sasso. Quindi è la parola che vale mille immagini, alla fine, e non viceversa. E dentro quelle immagini che noi ricreiamo nella nostra testa c’è la realtà: non “la” realtà ma “la nostra” realtà, diversa per ognuno di noi, perché diversi sono i nostri punti di vista, anche fisicamente, diversi i nostri riferimenti culturali, diverso il nostro vissuto affettivo e sentimentale (per inciso, se sento la parola “sasso” io continuo a vedere quello che da bambino mi ha colpito in fronte, rotolato da una scarpata durante una gita in montagna, provocando una cascata di sangue che mi ha coperto il viso).
Nel leggere e osservare in rapida successione I ritratti veri, sapientemente tratteggiati da Giorgio Camuffo, si ha come l’impressione di veder sfilare davanti a sé un’umanità dolente, divenuta anaffettiva, senza più amore e malata di nostalgia e solitudine, fotografata dalla scienza di aristotelica memoria della fisiognomica che attraverso i tratti del e sul volto riesce a cogliere il respiro dell’anima e dello spirito dei personaggi che, in contraddizione con il titolo, non sembrano però affatto immaginari. Quanto è labile il confine tra realtà e immaginazione? Non credi che solo per il fatto di immaginare un personaggio o una realtà altra questi in verità esistano e consistano?
È vero, quei ritratti apparentemente così semplici di Camuffo, sono intrisi di umanità. È questo che mi ha colpito fin dall’inizio. Se non fosse così non avrei mai iniziato a scrivere di loro. Non ho mai chiesto nemmeno a Camuffo se quelli fossero effettivamente dei ritratti di persone reali, che lui ha incrociato nella sua vita (so per altro che sta scrivendo un libro bellissimo, con altri disegni e storie di persone che abitavano nel quartiere popolare in cui lui viveva da ragazzo). Non mi interessava, in fondo. Per me erano perfetti sconosciuti, quindi persone immaginarie, volti di una commedia dell’arte che assomiglia alla vita, e per questo alla fine quei ritratti mi sembravano al contrario così veri, reali. A tratti mi ricordavano persone che io stesso avevo conosciuto, come Amalia, la figlia “strana” del vicino, oppure come Olindo, il “tombeur de femme” delle sagre di paese. Altri avevano una caratteristica che faceva scaturire storie a cui non avrei mai pensato, che si sono quasi scritte da sole, come Agata la gemella siamese. Non ho citato a caso Hans-Georg Gadamer di Verità e Metodo nella postfazione. Lungi dal voler attribuire il titolo di “opera d’arte” a questo piccolo libro, ne condividevo appieno il suo approccio come forma di conoscenza della realtà e di sé: “Ciò che propriamente si sperimenta in un’opera d’arte, ciò che in essa attrae la nostra attenzione, è piuttosto il suo essere o no vera, il fatto cioè che chi la contempla possa conoscere e riconoscere in essa qualcosa, e insieme se stesso”. La verità non ha nulla a che vedere con la realtà, e per questo i ritratti hanno la pretesa di essere “veri”, assolutamente veri, ancorché di persone immaginarie.
Si può dire che nei personaggi immaginari di questi ritratti, nei loro tic e aberrazioni, nel loro essere paradigmi dell’umanità, vivono e palpitano i caratteri, umani, umanissimi di ciascuno di noi?
Credo che questo tuo lapsus sia significativo: in realtà non si tratta di “personaggi” appunto, come li hai chiamati per errore, ma di persone e in quanto tali dotati di sentimenti comuni, di passioni, amori, paure, brividi che prima o poi abbiamo provato anche noi, sulla nostra pelle. È quello che dicevamo prima riguardo la “verità” di questi ritratti. A me stupisce, anzi spaventa, la superficialità dei giudizi a cui ci hanno abituato i social media. Io ho sempre in mente una frase, non so di chi sia in realtà, probabilmente di un reverendo scozzese dell’Ottocento, che è diventata però il mio mantra quando vedo o incontro qualcuno che non conosco: “Sii gentile, perché ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla”. Ecco, in quei volti io ho cercato di indagare le “battaglie” più o meno dure che tutti noi attraversiamo o abbiamo attraversato: il bullismo inconsapevole subito da bambini, un amore perduto per sempre o atteso invano, un attimo che ci ha cambiato per sempre, il rapporto con un figlio, una malattia, insomma i piccoli scarti dalla “normalità”, dettagli che proprio in quanto tali non sono mai insignificanti.
Quali sono i tuoi programmi futuri?
Prima ho detto che fortunatamente non devo guadagnarmi da vivere con la scrittura; ora dovrei dire viceversa che “sfortunatamente” devo comunque lavorare per vivere. Oltre all’insegnamento in Università, che è in fondo un pretesto per continuare a frequentare ragazzi di vent’anni o poco più, ho uno studio di comunicazione di oltre cinquanta persone che mi impegna abbastanza. Certo, sono consapevole che quello del tempo che manca a volte è solo un alibi, ma sono altrettanto convinto che la scrittura richieda un esercizio costante, ostinato, quotidiano che io non mi posso permettere. In più il mio è comunque un lavoro intellettuale, creativo in qualche modo, in cui devo impiegare i pochi neuroni che ho a disposizione: è un po’ come fare il pianista da pianobar quando vorresti fare il musicista classico, un po’ di passione e di idee ce le devi mettere, ma poi non restano per altro. Sarebbe più semplice fare un lavoro prettamente manuale e ricavarsi del tempo per scrivere. Ma non mi posso lamentare. Ho solo bisogno di forme di scrittura brevi, estemporanee, occasionali. C’è un romanzo di cui ho scritto circa trenta pagine che aspetta lì da anni, c’è un piccolo libro già pronto sulla fine del mondo con delle illustrazioni di Lucio Schiavon bellissime, ma è difficile trovare un editore perché i libri illustrati costano. Quindi davvero, non saprei risponderti sui programmi futuri, non ne faccio mai: mi limito a vivere e ad attraversare le mie personali battaglie, come in fondo facciamo tutti noi.