Potremmo definirlo un testo plastico, di ritratti cangianti e a molteplici dimensioni, una statua più che un quadro. Finestra surreale di Luca Carbonara (Cultura e dintorni, 2017) compendia in sé i tratti dell’‘esemplarità’, una sorta di monumento alla tradizione capace di rinnovarsi conservando, teso tra invenzioni oniriche e affilate percezioni del presente. Difficile non lasciarsi turbare dalle atmosfere di questi bozzetti, simili a rêverie angosciose eppure colme di speranza, come se il retrogusto di miseria e abbandono già sottendesse una rinascita, il pegno da pagare per invertire la rotta.
C’è, nella tessitura narrativa, un’insanabile distanza tra l’io e il mondo esterno, una sorta di ostinazione a resistere, a riscattare le mortificazioni, le storture del quotidiano. Più che singoli racconti, gli scritti di Carbonara appaiono capitoli di un’unica opera programmaticamente interminabile, solcata da stratificazioni e da citazioni più o meno esplicite, a dimostrazione della reversibilità – e dunque della precarietà – delle forme e dei generi di volta in volta sfiorati.
Statuaria, dunque, ma non immobile la sua opera, ruotante attorno ai temi dell’ambiente, della Storia (risuona la lezione di Morante, quell’idea di scandalo che dura da diecimila anni), del peccato, dell’angoscia. L’io narrante, sempre diverso ma coincidente con lo scrittore, è al centro di una continua performance, getta il corpo nella lotta emulando il pasoliniano procedere, come nel caso dell’ultimo testo, Shock, in cui si avverte l’eco di un frammento di Petrolio, quando il protagonista (che non a caso si chiama Carlo) vaga tra le macerie di una stazione, nello stesso, apocalittico caos dell’Italia delle stragi.
Al pari dell’intellettuale friulano Carbonara costruisce ‘visioni’, un processo di iniziazione che viaggia su un doppio livello, teso al confronto tra piani, allo scandaglio dell’invisibile. Il surrealismo – ancora una volta produttivo, passibile di contaminazioni – stravolge la realtà in un lunghissimo sogno, i cui frammenti rivelano la mutazione in corso, il lento disgregarsi di un sistema organico. Il cataclisma annunciato – meglio, «il timore di un attentato» – nella «stazione più importante del paese» è allegoria di un mondo sprofondato all’indietro, una waste land che ha il sapore di una nuova preistoria, in cui il protagonista è solo, pronto a riattivare il ciclo vitale.
Si ha l’impressione che l’autore percepisca ogni frammento come la prosecuzione o l’ampliamento dei precedenti, spinto a ciò dal desiderio di pronunciare un unico discorso davanti ai suoi lettori. Il suo sguardo implacato sulla compromissione del mondo – sulla guerra, sul consumismo, sul dramma della solitudine – fluisce in rivoli onirici, come nel caso de La pioggia in cui una vetrina diviene specchio della purezza, della non-compromissione con l’universo circostante. Ricorrono nomi nell’opera, e più ancora ricorrono spazi: come Roma, teatro riconoscibile sebbene sfumato, e ancora il mare, elemento «senza tempo», che «non conosce presente né passato né futuro». «Vita che dà la vita», in cui è possibile immaginarsi liberi pur se aggrediti dall’insipienza dell’uomo, dalla cupidigia che sfida gli scogli (ne L’ultimo viaggio è evidente il riferimento al naufragio della Costa Concordia nel 2015), dal mancato esercizio della memoria storica.
Finestra surreale ci mostra ancora una volta come il meglio della nostra letteratura risieda in testi ‘marginali’, dove il confine tra i generi si annulla, e tutto è in bilico tra commistione e rigetto – tra accettazione e abiura del proprio tempo.
Ginevra Amadio