Mi capita, talvolta, quando chiudo un libro che mi ha sorpresa per stile e modello, di guardarmi istintivamente le mani, come se avessi la sensazione che qualche parola, qualche frase, qualche immagine si sia impressa anche sulla pelle, tra le dita e non solo negli occhi. È successo di nuovo quando ho terminato di leggere due singolari libri di poesia di Francesca Favaro, rispettivamente, Il destino di Ettore. Versi e prose liriche (Padova, Cleup, 2022) e Cercando voci azzurre (Pisa, Giardini editori e stampatori, 2023) due opere che definirei consequenziali, ma anche dissimili per impianto e impasto.
Il primo, caratterizzato da una originale commistione tra prosa e verso, in una consecutio che si compenetra nelle movenze della struttura, riunisce pagine scritte nell’arco di una decina d’anni, che gravitano attorno al fulcro costante del mito classico riletto, rivisitato con la sensibilità di chi vi riscopre tematiche, scelte e vicissitudini proprie di creature immortali nella mortalità fragile dei nostri giorni. Una prova originale e intensa che sorprende e affascina per la sapienza degli accostamenti e per la delicatezza delle immagini che si frangono, ora delicate ora forti, su un «piccolo cielo capovolto» che palpita e respira, per evidenziare che «sotto la stella del sacrificio e del dovere» il nostro destino consiste «in una rinuncia a sé stessi che a sé stessi è fedeltà.»
Una raccolta che sembra presagire l’innesto naturale nella successiva, a partire dalla ciclicità del colore azzurro, sul «flauto» che si scurisce, nel «lievissimo orlo d’azzurro» del glicine, nella «goccia azzurra» della lacrima di Dio nascosta «entro una piega del cosmo». Un colore che diventa nostalgia, percezione dolorosa di un’assenza e di una mancanza, immagine di una ricerca che ci stupisce avvolgendoci dentro un’intimità sommessa e vibrante di voci, dove sembra rivelarsi appieno l’anima dei poeti che «donano ai cieli e alle acque, al volto selvoso e fiorito della terra, la melodia filtrata dal loro sentire e non è detto che cieli, mari e terre non si rallegrino di ascoltare se stessi, così ri-cantati in musica di poesia, e non se ne stupiscano, euforici, rabbrividenti.»
Con quest’opera, la poesia di Francesca Favaro si staglia, a mio avviso, tra le testimonianze più vive e vere di questi anni; la sua parola ha echi e suoni che disegnano un percorso di destrezza nel ritmo, nelle cadenze delle paronomasie, delle rime al mezzo e nelle assonanze diffuse, ma che rivela soprattutto una ricerca che diventa colloquio con se stessa e con chi la legge ispirando commozione a ogni frangente.
Tre le sezioni, La luna e noi; Cercando voci azzurre; Su antiche orme, ma nella sorprendente e visibile continuità dei temi e delle figure si svela una maturità compositiva che ammalia per originalità e sensibilità.
In primis il colloquio con la luna, misteriosa e «scevra di illusioni», «fata madrina» «dagli occhi di giada» a cui chiedere ragione di un’appartenenza indecifrabile «nelle notti tese dell’inquietudine». Vibra di seguito l’azzurro di «un tempo breve”, la luce consapevole di pensieri, sentimenti, sogni (mi verrebbe da dire: che si sconta vivendo), per consolarci di «aver troppo guardato», con sgomento, il vuoto.
Un vuoto che invoca la parola nativa del Padre che ha detto di amarci anche se ai suoi occhi siamo «perduti» soprattutto quando ci nascondiamo dietro a un «non”, a tutto quello che non abbiamo «osato, né patito, né pianto»; ma anche stare ai margini può diventare una strenua bellezza, per assaporare il silenzio che si rivela somma di colori, come il bianco che ci inganna. Così l’inverno, quando «la bella neve scende lenta» e subito si scioglie, simile a un addio, non rappresenta una sola stagione, neppure un rimpianto, ma una sosta, una pausa in attesa che il seme «nella zolla» possa sbocciare ancora. Felice.
Si scopre anche un’anima di donna in questi versi: nella dedica a un Tu che è tepore nel cuore, in quella a mille e altre Sherazade che respingono vibranti «il giogo della sudditanza» e in quella che scruta gli occhi di bambino per attraversare il velo azzurro del mondo che si scolora, trafitto dall’arsura insostenibile dell’ingiustizia.
L’ultima sezione torna a restituire voce azzurra, voce nuova, alle figure della classicità, rileggendo Esiodo, il saggio di Ascra, Orazio dei Carmina (l’invernale malinconia della fonte Bandusia, splendidior vitro), Ibico cantore antico e immortale, Afrodite, Aurora cantata da Saffo, Alcmane e la sua poesia corale «come una preghiera» e lo strazio delle Sirene, costrette a non cantare più , «vinte dal naufrago itacese».
Una conclusione che appare come un monito e che conferma, una volta ancora la volontà, di spargere voci azzurre lasciandole fluire dall’anima quando riesce a sciogliersi in poesia.
Per questo, leggendo, me le sono scoperte davvero madide e “rabbrividenti” le mani, pervase di una malinconia che diventa fonte di una rinascita che oltrepassa la fatica di un riconoscimento.
Con grande efficacia.
Saveria Chemotti