La nota critica al racconto di Ginevra Amadio “Tanto amore come l’amore (Florentino Ariza e Fermina Daza-Marquez)”, tratto dall’antologia di racconti “Costola sarà lei!” edita da Il Poligrafo.

Costola sarà lei!

Lodevolissimo l’intento della presente antologia, tutta formata da racconti di sole scrittici, perseguendo il progetto di rimarcare l’assoluta preponderanza del sesso femminile nella narrativa universale, facendo parlare con voci di donne le protagoniste di vicende quasi sempre raccontate da maschi nei romanzi dei più famosi autori, quindi in realtà relegate a ruoli di secondo piano, ma finalmente qui dotate di eloquio in prima persona.
Tutte donne le autrici, dunque, e tutte donne le protagoniste che escono dal cono d’ombra di un’alterità spesso subordinata alla descrizione, allo sguardo insomma, degli uomini, ingabbiate nei corsetti di ferro della loro educazione retrograda e patriarcale, sottoposte al desiderio dei padri, dei fratelli, degli zii, dei cugini e anche di tutti coloro che sono estranei alle loro famiglie scombinate e anaffettive. Così accade a Fermina Daza-Marquez, la quale, nel racconto di Ginevra Amadio Tanto amore come l’amore, ispirato al romanzo L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Marquez, diviene voce narrante della propria storia, colei che nel concatenarsi degli avvenimenti muove i fili di se stessa, non più marionetta nelle mani degli altri, il padre violento e prevaricatore, il marito non amato, lo spasimante che muore d’amore per lei, fedele per quasi cinquantadue anni di vita al suo destino, povero telegrafista scartato a favore del medico stimato e benestante Juvenal Urbino, che riesce a farla sua grazie al volere supremo del genitore.
In realtà, neppure l’innamorato Florentino Ariza avrebbe doti di primo attore del plot se non fosse per la feroce caparbietà del carattere, l’incommensurabile pazienza dimostrata sia nel conseguire uno status sociale prestigioso dal punto di vista sociale ed economico, che lo riscatta dalla sua condizione di figlio naturale di un ricco armatore, sia nel perseverare irrevocabilmente al fine di raggiungere ciò che da una vita si propone, l’unione con la sua adorata Fermina, nonostante le più stravaganti avventure con donne di età e condizione assai differenti che costellano la sua intera esistenza.
Ma è di Fermina qui che si parla, anzi che Ginevra Amadio fa parlare in prima persona, sottraendola alla penosa alterità delle parole altrui e dove si palesa la sua indole perversa, forse, tutt’altro che sottomessa, come la cugina di Florentino, destinata a essere “carne da convento”. Nonostante i privilegi, l’ottima educazione, la bellezza suprema e la squisita eleganza della persona Fermina (e già il solo nome basterebbe a definirla: è colei che è ferma nei suoi propositi, fedele a se stessa, ma non all’amore degli altri) si oppone a suo padre che la vuole concedere come un premio o un gioiello al miglior offerente, “una mula resa cavalla”, “una bestia rara”, desiderata da molti ma amata perdutamente, ossia fin quasi a perdere sé stesso e la ragione, da Florentino, e assume nelle proprie mani il suo destino, istruita non da un maschio ma da una femmina come lei, la cugina e intima amica Hildebranda, la quale prende anche lei la parola per delineare il fato d’amore, quello vero, quello che attende Fermina alla conclusione della vicenda, conoscendolo più di quanto non lo conosca quest’ultima.
Sia Fermina sia Hildebranda sono descritte minuziosamente, creature vive che spiccano nelle pagine grazie alla sapienza intuitiva, all’immaginazione asseverata dal lungo studio e alla capacità critica di Ginevra Amadio, quasi fossero statue di carne e sangue. Così, nel racconto ricreato da Ginevra, Fermina annota tutto, legge tutto, scorre le lettere del suo spasimante lontano, le sue poesie, però intanto sposa un uomo che non ama, “erede di una fortuna, antica stirpe di gente in vista”, seguendo l’orgoglio di classe del padre, viaggiando con lui per il mondo e sottoponendosi al suo piacere, come se al piacere lei non avesse diritto se non per concederlo, mai per pretenderlo, “moglie e donna addomesticata” fino a sfiorare la follia dell’inesistenza, pur sentendosi nel cuore nevralgico dell’esistere.
Per contro, nelle ultime pagine del racconto anche a Florentino è concesso di parlare con la propria voce, esprimendo il suo odio nei confronti dello sposo di Fermina, un odio viscerale che arriva al punto da desiderare la morte di colui che è visto come “grande usurpatore” del suo mondo sognato, voluto, cercato, il mondo dominato da Fermina, la sola adorata a fronte di tante altre donne, possedute per libidine, noia o pietà, un mucchio indistinto di femmine da cui egli estrae, come da un mazzo di carte, tutte uguali e tutte diverse, quelle che gli sono rimaste impresse nella sclerotica come in un dagherrotipo, sebbene anch’esse perdute come fiori spersi in una notte di pioggia, perché restasse nelle sue narici l’odore di Fermina, la cui carne, anche da vecchia settantenne, sa di camelie bianche.
Magistrale ricostruzione di un universo ormai tramontato, benché eternizzato dall’immaginazione esorbitante di Gabriel Garcia Marquez, nelle fitte, dense e concentrate pagine di Ginevra Amadio, assolutamente notevoli sia per l’invenzione, sia per lo stile, in cui ogni nome, ogni aggettivo, ogni verbo, come anche la concatenazione quasi a sussulto delle frasi, costringono il lettore al pensiero, ovvero a riflettere sull’assoluta concretezza di una vicenda, che pure supera ogni realtà nella travolgente fantasia che la sostiene e la invera.

Francesca Farina, poeta, scrittrice e critica letteraria

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