La Luce salvifica della scrittura
Intervista a Francesca Cerutti
a cura di Luca Carbonara
Nel 2020 ha esordito giovanissima in ambito editoriale con il romanzo Noi quattro nel mondo edito da Bookabook e, prima di questa nuova silloge di racconti Pretendi un amore che non pretende niente edita da Augh! Edizioni, ha scritto racconti editi in varie antologie ottenendo anche riconoscimenti dalla critica. Si direbbe la sua una vocazione scritta nel e dal destino che molto presto ha visto la luce. Come ha coltivato e maturato questo suo particolare talento?
Da bambina mi piaceva inventare storie, ma rimanevano sempre solo nella mia testa. Verso i tredici anni mi sono fatta coraggio e ho provato a metterle per iscritto; ho continuato per tutti gli anni del liceo, scrivendo cose che a rileggerle oggi mi sembrano molto ingenue, ma che comunque hanno contribuito a insegnarmi a scrivere. Di vitale importanza è stato poi un corso di tecniche di scrittura tenuto dalla professoressa Luisa Previtera – che ringrazio alla fine del libro – quando ero all’università. E in tempi più recenti ho seguito due corsi di scrittura tenuti da Mattia Insolia, un autore che stimo molto e che mi ha dato suggerimenti davvero preziosissimi.
Quanto è stata condizionata e/o influenzata la sua scrittura dal suo lavoro di traduttrice?
Studiare e poi lavorare come traduttrice mi ha insegnato ad avere una cura ancora maggiore per le parole, a soppesarle con cura e scegliere quelle giuste, evitando ghirigori inutili. E proprio dalle lezioni in università ho mutuato una strategia che si rivela molto utile quando traduco, ma anche quando scrivo: rileggermi ad alta voce. Può sembrare una banalità, ma quante volte ho letto una frase ad alta voce e solo allora mi sono accorta che non girava proprio…
La sua bibliografia denota un passaggio importante: quello dal genere romanzo al genere racconto, in questa successione e non viceversa come solitamente succede agli scrittori, a evidenziare una sua chiara predilezione per questa particolare forma di scrittura. Ricordando le lezioni dello scrittore argentino Julio Cortázar, maestro del racconto e del romanzo, che paragonava il racconto a un universo sferico chiuso e risolto in sé, che necessita dunque di una particolare abilità e sapienza narrativa, quali sono stati i motivi e i riferimenti che l’hanno ispirata e guidata in questa scelta?
È vero, spesso molti passano dalla narrativa breve a quella lunga, mentre io ho vissuto il percorso opposto. La mia decisione di scrivere racconti si deve essenzialmente a due motivi. Prima di tutto, sentivo di avere tante cose da dire… troppe per essere racchiuse in una storia sola, avrei rischiato di mettere troppa carne al fuoco, e così ho deciso di dedicare a ognuna un racconto a sé, con i suoi personaggi e la sua atmosfera. Inoltre, in questo modo ho potuto scegliere per ogni racconto la tecnica narrativa e il punto di vista secondo me più adeguato per quella specifica storia. Diciamo che scrivere racconti mi ha dato la libertà di sperimentare di più. Ha rappresentato anche una sfida, perché se la storia si sviluppa in poche pagine non puoi permetterti nessun momento morto o quantomeno calante. E credo che questa impostazione si rivelerà molto preziosa quando mi riavvicinerò alla forma romanzo.
La silloge di racconti appena edita da Augh! Edizioni Pretendi un amore che non pretende niente ha assunto come titolo quello di uno dei racconti. Vale a dire una parte per il tutto, una sineddoche. Il carattere assertivo di questo titolo rivela una scelta precisa che vuole essere soprattutto una scelta di campo, una netta presa di posizione. Del cuore e della mente. E non può non colpire per ciò cui rimanda e sottende. Chi sono realmente e a chi rimandano i protagonisti di questo racconto, un uomo e una donna che, senza conoscersi e indipendentemente l’uno dall’altra, si imbattono “casualmente” nei versi di questo anonimo poeta che li costringerà a mettersi a nudo aiutandoli a ri-conoscersi?
Elisa e Nicolò, i protagonisti del racconto Pretendi un amore che non pretende niente, non si conoscono ma si muovono negli stessi luoghi, a distanza di pochi metri l’uno dall’altra. E, soprattutto, c’è una cosa che li accomuna: pur avendo alle spalle storie diverse, entrambi sono vittime di situazioni che a ben vedere non li stanno portando da nessuna parte. Entrambi devono trovare il coraggio di voltare pagina, magari attraverso la “piccola ribellione” citata nel racconto. Ed entrambi si emozionano di fronte alla stessa poesia, anche se ognuno le dà un significato diverso a seconda di ciò che sta vivendo in quel momento. Quando ho scritto il racconto volevo che i lettori leggessero la loro storia, li vedessero muoversi per le stesse vie, così vicini e al tempo stesso così distanti, e pensassero: questi due si farebbero molto bene a vicenda, se solo avessero la fortuna di trovarsi.
In quest’opera, che si evidenzia per l’uso di diversi stili e tecniche di scrittura, come i diversi tipi di dialogo e i cambi dei soggetti di interlocuzione, è evidente la funzione diegetica della musica e della letteratura al punto da indurla a impreziosire il volume con interessanti note bibliografiche e discografiche. Quanto sono influenzate la sua scrittura, la sua ispirazione, la sua visione e la sua stessa vita dai linguaggi della Musica e dalla Letteratura?
Ciò che scrivo è fortemente influenzato da ciò che vivo, ma anche da ciò che leggo e che ascolto. E ho voluto sottolineare questo aspetto inserendo nel libro diversi riferimenti bibliografici e discografici, a volte espliciti – come i versi di En e Xanax di Samuele Bersani in apertura al racconto Ci sono notti –, altre più impliciti, quasi in un gioco con i lettori, come a dire: vediamo chi indovina a che libro o a che canzone faccio riferimento qui. Tanto in fondo al libro ci sono le soluzioni…
Che cosa accomuna i protagonisti delle otto storie che compongono la sua ultima silloge? Sembrerebbero declinazioni diverse di una medesima tensione, della stessa sofferta ricerca di veridicità e autenticità, nei legami, nei rapporti, con sé stessi e con gli altri, e di un diverso modo di “vedere” e “sentire” la realtà. Qual è il personaggio che più le assomiglia?
In realtà non c’è un personaggio in cui mi rispecchio più che negli altri; tutti hanno qualcosa di me e della mia esperienza, oppure tratti riconducibili a persone che fanno effettivamente parte della mia vita. Sono personaggi diversi che fanno parte di storie a sé stanti, ma è anche vero che c’è un fil rouge che li lega. I sentimenti che provano e il loro carico di speranze e paure sono bene o male gli stessi. Così come sono convinta che le nostre emozioni non siano poi così diverse da quelle degli sconosciuti che ogni giorno incrociano il nostro cammino.
C’è una protagonista nei suoi racconti. Si potrebbe definire principale considerando la sua presenza in tutti i racconti. Ma è silenziosa, discreta, presente ma mai invadente, una sorta di nume tutelare, di co-protagonista, sensibile, confidente, complice, affidabile, fedele, accogliente, misteriosa e affascinante. Meta ambita, per altri versi, con le sue mille luci e le sue ombre, anche molto fitte. Che cos’è e che cosa rappresenta per lei Milano? Nelle vie, nelle tramvie, nelle piazze della “sua” Milano che cosa c’è o cosa resta della Milano di Buzzati, di Vittorini, di Bianciardi?
Per stare in tema di riferimenti musicali, citerei una delle ultime canzoni dei Baustelle, che recita: «Milano è la metafora dell’amore, di tutto ciò che cambia, della vita che va». E in effetti Milano è così, è forse la città italiana che più ha cambiato volto negli ultimi anni e decenni. La Milano attuale post-Expo non è più nemmeno nell’aspetto – anzi, oggi diremmo nello skyline – quella di Buzzati, Vittorini e Bianciardi, così come non è più quella “da bere” degli anni Ottanta e non è più nemmeno quella dei primi anni 2000. Basti pensare che appena una quindicina d’anni fa i grattacieli che contraddistinguono il quartiere di Porta Nuova neppure esistevano… E cambierà ancora volto, è nella sua indole. Non escludo che tra alcuni anni qualcuno prenda in mano il mio libro e fatichi a riconoscere i luoghi descritti, che magari saranno diventati totalmente diversi.
Crede davvero nelle coincidenze o c’è qualche altra cosa, una sorta di realismo magico che si invera, oltre il visivamente tangibile che guida e ispira l’agire umano?
Le coincidenze mi affascinano molto, e in effetti a volte mi sono trovata di fronte a eventi concatenati così bene che mi sembrava quasi un affronto pensare che fosse stato tutto una semplice casualità. È però anche vero che, come scrive Antonella Lattanzi nel suo ultimo romanzo, Cose che non si raccontano, quando si è alla ricerca spasmodica di un segno che in qualche modo ci confermi qualcosa a cui ci stiamo aggrappando con tutte le nostre forze, potenzialmente tutto può diventarlo. E da lì a travisare la realtà e commettere errori di valutazione il passo è breve. Resta comunque il fatto che le coincidenze mi affascinano troppo perché smetta di crederci.
Luce, il brevissimo evocativo e significativo componimento che chiude come coronamento di significato e di senso la silloge, è il racconto “figlio” della pandemia. A dispetto del suo carattere onirico è forse il più realistico. È lei infatti la protagonista di quello che si potrebbe definire un sogno lucido nel quale scompaiono lockdown, mascherine ed epidemia e compare l’altra protagonista quella luce al cospetto della quale nulla potrà andare male e tutto viene detto e accade in quello che al risveglio si rivela essere solo un ricordo sublimato nel sogno. La realtà è diversa pur se illuminata da quella luce che la protagonista aveva già visto. La protagonista di Luce l’ha poi detto quel “ti amo”?
Non alla persona a cui si fa riferimento in Luce. Posso però dire, più in generale, che la protagonista di quel racconto sta pian piano imparando a cogliere con meno timore le opportunità insperate. E sta capendo che a volte, per ritrovarsi, bisogna passare da situazioni in cui tutti i punti di riferimento sembrano venire meno.