La fuga e il ritorno
Nel 1904-1905, all’inizio di un secolo gravido di rivolgimenti epocali, riflessi in nuove modalità di ricerca e di scrittura, Pirandello metteva in bocca a uno squassato Mattia Pascal, bibliotecario in una chiesa sconsacrata, una singolare bestemmia, quel «Maledetto Copernico» con cui sintetizzava il disagio di una intera generazione che metteva in discussione “sentimenti” e forme interpretative della realtà, sottolineando la precarietà di ogni ideologia, il relativismo di ogni situazione e la necessità di ricercare nuove forme espressive dinanzi alla perdita di un “centro di gravità permanente”.
Me lo ha ricordato il nuovo romanzo di Elisabetta Baldisserotto perché qui, il «maledetto Copernico» riappare in nuce e agisce per antifrasi, è un mugugno trattenuto che sviluppa un’antitetica reazione, in una situazione storica che potrebbe rivelare numerosi punti di contatto. Nessuna imprecazione qui: si guarda, metaforicamente, in faccia Copernico e il suo rovesciamento e lo si sfida, lo si provoca. Spicca la consapevolezza, soprattutto, che non basta accusare la realtà di quello che è per avere l’alibi di macerarsi dentro un’anonima autoconsolazione, rifiutandosi di attraversare quella fatidica linea d’ombra che è anche limite di demarcazione di uno spaesamento che lievita da un’inadeguatezza e da un disagio profondo, singolare e plurale.
E non è un caso che il libro sia scritto in prima persona perché l’io che narra non nasconde la sua identità, ma affascina per veridicità, perché l’esperienza non è solo relazione su un’autoreferenziale tranche de vie di Linda, la protagonista (nome a suo modo evocativo di un desiderio di purezza, quasi in antitesi con gli accadimenti che la riguardano), ma vuole diventare parte di un discorso di verifica e di indagine che si costruisce brano a brano, tessera dopo tessera con una valenza identitaria generazionale, per situazioni e, forse, per aspirazioni e desideri. Il ricordo degli anni Settanta, le origini del femminismo, le manifestazioni legate alle lotte studentesche, il ruolo di Potere Operaio, di Lotta Continua; le cariche della polizia, le uccisioni: il “pagherete caro pagherete tutto” scandito con rabbia, la Contessa, che roba, di Paolo Pietrangeli, restituiscono una memoria palpitante per chi li ha vissuti. Un nodo in gola, perfino. Le illusioni si mescolano con le prime esperienze di droga e di sesso in una Venezia sgargiante, vivida, memorabile dentro la nostalgia dell’altrove. Lo spaccato di un periodo di grande cambiamento, di una svolta culturale finalizzata a una liberazione, destinata purtroppo a sbattere contro il muro invalicabile del potere patriarcale, disegna un ripensamento ardito e inesausto delle tradizioni ideologiche cementificate.
Vivido e nodale è soprattutto il contrasto tra Vito e Jamie, le due figure maschili protagoniste assieme a Linda. Rivoluzionario in toto il primo, più disponibile alla fuga dal presente il secondo: entrambe figure che si affacciano nella storia in ruoli efficaci e convincenti, scanditi anch’essi con agile sapienza narrativa.
Altrettanto intenso e commovente è il rapporto amicale che Linda instaura con le donne ricoverate con lei all’Ospedale Santa Maria delle Grazie, l’ospedale degli infettivi: Sabrina, Ada, Regina, Flora, Maria, Vittorina (senza naturalmente dimenticare l’ospite suadente che sbuca nella loro stanza: il gatto Shiva, presenza a suo modo magica). Lo svelamento delle loro identità, dei loro traumi e delle loro speranze si colloca in un processo di avvicinamento che testimonia un bisogno profondo di colloquio con la nuova sé stessa, a ridosso del ripensamento del percorso esperienziale vissuto tra le conchiglie di Shiva, l’amuleto simbolo di nuova conoscenza e di saggezza che, nella sua forma a spirale, disegna la storia di una ricercata rinascita, il mito dell’altrove inseguito e perso ma rievocato più volte nelle tappe di allontanamento e attraversamento dentro luoghi variegati in Italia e in India. La carica eversiva delle esperienze in cui si traduce il balbettio dell’impasse relazionale di Linda, la solitudine e la malinconia, gli inganni e gli smarrimenti, i travestimenti e le maschere, l’aridità affettiva e l’impotenza, ma anche il suo stupore sempre più meravigliato dinanzi alle nuove atmosfere, riescono a parafrasare perfino la paura, la sterilità e la marginalità assurda della vita. Il mondo si spalanca, si svela nella sua complicata e doppia versione, ma proprio mentre si apre, madido di prospettive, si richiude addosso a chi lo attraversa.
Il viaggio verso e dentro l’India, frequentata in quegli anni da una moltitudine di ragazzi, diventa ossessione, meta spia di un’amputazione che scaturisce da un disagio esistenziale, familiare, collettivo e soggettivo insieme, per cui fuggire diventa l’unica scelta possibile per “riconoscere la forza dei legami a cui non sai sottrarti altrimenti” (p. 155). Una forza che dilania, disarciona, ma che può far lievitare una nuova identità. La scrittura si trasforma così in ricerca di un ritmo nuovo che, nella fissazione dei particolari, registra i cambiamenti e consente di recepire l’oralità, la plurivocità del respiro emozionale che scava, ma anche la piega dello scherno e il guizzo effervescente del grottesco che feriscono. Una polifonia che si manifesta in capitoli brevi che racchiudono una varietà di voci che non stridono tra loro ma si completano, armonizzandosi. Leggiamo così pagine cromatiche, rapide, descrizioni cadenzate e squarci di luce improvvisi che, in alcune occasioni, si trasformano in corti scenografici o in preziosi camei che spiccano per la loro ricchezza umana e simbolica.
Insomma, a mio avviso, chi scrive e chi narra riesce a parlare di sé con scoperta e dunque non edulcorata maniera, indagando, analizzando, svelando quel sé meno rassicurante e meno rassicurato, raccontando quel conflitto che abita nel suo corpo vivo, le sfide della gioia nella sregolatezza, l’impasse tra adolescenza e maturità, e lo fa in modo disarmante, suadente, provocante e acre allo stesso tempo, con una confidenza che sfiora la confessione e la corrispondenza amicale. Trapela da questo libro il desiderio di un’intimità profonda, ricercata, mai tradita, col lettore il quale, sbirciando nei sentimenti e nelle emozioni di chi scrive, si sgomenta per la familiarità e originalità ben riconoscibili dei fatti e delle reazioni che non può non condividere. L’io narrante, infatti, raccontandosi, sprigiona la sua realtà disponendo sulla pagina fatti e persone reali, il suo vissuto intricato, fervido di particolari, scrive e riflette su ciò che l’ha colpita soggettivamente, ma riconquista un’oggettività proprio nel momento in cui condivide tutto ciò con le riflessioni degli altri e sugli altri (sulle altre in particolare) in quello che diventa uno spazio di condivisione: della memoria del passato da un lato e dell’urgenza del presente dall’altro.
Costretta dentro una stanza d’ospedale, accanto a donne malate di diversa età e vitalità, Linda ridisegna uno spazio chiuso che contrasta con quello che all’improvviso si apre nei suoi occhi portandola a vagare per l’India, a rivivere incontri, a rivedere visi e persone, ma soprattutto spazi, sillabando uno spaccato che evoca la cadenza dei pensieri e delle immagini. Mima così anche il ruolo contrastato, positivo e oppositivo della famiglia, padre madre sorella, testimoni plurimi di un malessere che ha risvolti perturbanti oltre che vorticosi, provocando prima la fuga e segnando poi profondamente il ritorno in un processo faticoso e sofferto di riconoscimenti reciproci, complessi e forse mai risolutivi anche se il finale prova a illuderci in una soluzione salvifica e benefica, addolcita da una crostata con le fragole destinata però forse a restare sullo stomaco.
Il libro, a mio parere, rivela anche una suggestiva scansione e una cadenza con funzione, in qualche modo, di ascendenza terapeutica, connotata proprio dalla ripetizione dei paragrafi e delle scene, interne ed esterne.
Una tappa fondamentale per la scrittrice, credo, per lei ma anche per noi, perché le sue parole hanno l’espressività e il sapore svelati dentro e oltre gli occhi di Shiva consegnandosi a chi le legge perché, nella fatica del cammino, ci si possa appoggiare alla riflessione rassicurante di Walt Whitman: “sono ampio, contengo moltitudini”.
«Maledetto Copernico».
Saveria Chemotti