“Interiormimetico”: la forma del silenzio in Paolo Fichera
di Ginevra Amadio
Una duplice forma di estraniamento si impossessa di chi si accosti alle opere di Paolo Fichera, perché all’immediato rimando al maestro della solitudine, Edward Hopper, si affianca la sensazione di fare i conti con l’impalpabile, con ciò che resta in ombra e non si vede. C’è infatti, in ogni tela, un sottile pulviscolo, un’impercettibile patina in dissolvenza che rende il senso di un tempo fermo, in cui la stagnazione emotiva si accompagna all’incomunicabilità, a un’anestesia percettiva che solo una sguardo altro, inevitabilmente dal margine, potrà forse svelare.
È nello spazio di questa ‘invenzione’, di una verità ricostruita attraverso i mezzi dell’arte che si colloca l’agire pittorico di Paolo Fichera, quasi epitomizzato nell’esposizione Interiormimetico, inaugurata lo scorso 9 novembre nell’ambito delle iniziative di Micro Arti Visive (Viale Mazzini, 1, Roma) per la cura di Laura Catini. Un viaggio nei meandri dell’io, in cui la dialettica interno-esterno concerne uno spazio che è insieme fisico e interiore, senza mai cedere, tuttavia, alle lusinghe di un rispecchiamento romantico, guardando semmai alla lezione dechirichiana, o meglio a una metafisica che Alberto Savinio individuerà come essenziale, una poetica in grado di svelare «quell’altra realtà», che solo un occhio addestrato, «un occhio di poeta» sa bene penetrare. Ogni riferimento finisce tuttavia per sfumare nelle tele di Fichera, che da grande artista esibisce e rielabora le suggestioni per dar vita a qualcosa che è insieme se stesso e altro, come dimostra la cifra di Attesa (2020), dove una ragazza è colta nell’atto di spiare, dalla finestra della propria stanza, lo scorrere di un tempo imprecisato, evocato da fanali che fendono la nebbia. C’è tanto Hopper, e qualcosa dei silenziosi, dolenti vàgeri di Lorenzo Viani anche in Primavera (2019), in cui un uomo e una donna fuggono lo sguardo l’uno dell’altra, rapiti da una notizia che non ha forma, come fossero tesi a un ascolto che sopperisce la vista, un gioco manchevole dei sensi, a sottolineare la solitudine che regna in coppia, i silenzi che diventano lacci che il tempo stringe o logora, senza che si possa mai saperlo, senza capire quando è il momento del fine. In un’eterna solitudine. Tutto, in queste opere di Fichera afferenti a un’ulteriore fase della sua ricerca, che dal tempo sospeso si sposta, forse, sul territorio dell’alienazione globale – fisica, emotiva, relazionale, ambientale – si carica di un sentimento di perdita in grado di collocarsi sul crinale tra straniamento e immedesimazione, come nello spazio indefinito de La tela bianca (2020), grande metafora di un annebbiamento che è assenza di un’unica prospettiva, di un unico – ‘sano’ – sguardo per osservare la realtà.