a cura di Luca Carbonara (estratto dell’intervista)
Tra i molteplici ruoli da lei ricoperti, tra gli altri da Assessore alla Cultura del Comune di Roma, a docente universitario, all’attuale prestigiosa carica di Presidente della Fondazione Musica per Roma, quale ritiene essere il più congeniale alla sua indole e alla sua formazione?
Di queste citate la mia esperienza di assessore, soprattutto all’inizio, è stata forse quella più assorbente ed esaltante. Dico soprattutto all’inizio perché quando nel 1993 arrivammo in Campidoglio, con Rutelli eletto sindaco dai cittadini per la prima volta, il Comune di Roma era stato a lungo commissariato e quindi la nuova giunta, per età e per tipologie di assessori, ha dato alla città una grande scossa e anche per noi quella è stata un’esperienza molto bella di progettazione di qualcosa di nuovo. Era anche il momento in cui si parlava di partito dei sindaci e gli stessi partiti politici, strutturati così come erano stati fino ad allora, avevano perso la loro presa troppo pervasiva e quindi eravamo tutti abbastanza liberi di fare quello che ritenevamo giusto fare. C’è stato poi un ritorno prepotente dei partiti completamente diversi però da quelli del passato perché i partiti che ho conosciuto e nei quali ho anche vissuto, in particolare il Partito Comunista, nella cosiddetta Prima Repubblica, con tutti i loro difetti e limiti, erano però delle grandi organizzazioni di massa dove tra l’altro c’era una solidarietà collettiva. I partiti oggi non sono più questo, sono gruppi spesso di potere, comitati elettorali, hanno perso questa loro fisionomia e quando c’è stato il ritorno di partiti di questo tipo, ben diversi da quelli della ingiustamente vituperata Prima Repubblica, si è persa anche quella autonomia di cui noi abbiamo goduto nel periodo di Rutelli perché di nuovo tutto era deciso nell’ambito dei partiti e non più dai singoli e non più solo attraverso le competenze di chi era chiamato a governare la città.
Arte e Società: in che misura è davvero possibile un dialogo e che possibilità ci sono che la Cultura e l’Arte diventino finalmente un volano anche per lo sviluppo economico e sociale?
Io sono convinto che la Cultura e l’Arte valgano e debbano valere di per sé ed è purtroppo una deformazione dell’Italia di oggi soprattutto pensare che bisogna comunque trovare una giustificazione economica all’arte e alla cultura perché altrimenti sono attività inutili ed è meglio lasciar perdere. Questa è una visione dell’Italia di oggi che è un Paese gretto, meschino e direi anche piuttosto declassato perché dalla Francia, alla Germania, all’Inghilterra, alla Spagna, agli stessi Stati Uniti, ovunque nel mondo, anche alla Cina, è a tutti chiaro che la Cultura è un grandissimo valore di per sé e che se un Paese non si fonda sullo studio, sulla scuola, sulla ricerca, sulla Cultura, è un Paese senz’anima. L’Italia poi che è il Paese della Cultura, perché i nostri antenati ci hanno lasciato opere, monumenti, musei, bellezze naturali e paesaggistiche (il petrolio dell’Italia, per dirla banalmente, è la Cultura), non capisce questo anzi taglia soprattutto nella Cultura pensando che siano cose inutili perché, come dice il Ministro Tremonti, di Cultura non si mangia, è un Paese perduto. Dobbiamo solo sperare che questo Paese cambi al più presto. Detto questo, è chiaro che la cultura, l’arte, le bellezze naturali, i monumenti, i musei possono anche avere un indotto economico, perché mettendoli a valore nel modo giusto, e anche nel modo moderno in cui tutto questo si fa, possono produrre posti di lavoro, occupazione, possono essere importanti anche per l’economia di un Paese, per il turismo, ma la Cultura va protetta anche se non servisse a nulla perché serve molto di più di quanto si immagina alla vita delle persone. Una vita senza Cultura, senz’arte, senza poesia è una vita senza senso. Purtroppo oggi, che siamo diventati tutti così ignoranti, capiamo perché poi la gente è violenta, compie quotidianamente delitti anche assurdi: perché non ha cultura, quindi non ha anima. Ricordo sempre quello che mi disse una volta un dirigente storico del Partito Comunista Italiano, che era stato molto vicino a Togliatti nella fondazione del grande Partito Comunista che ovviamente non esiste più, che si chiamava Paolo Bufalini. Ebbene Bufalini mi raccontava questo: era stato preso prigioniero dai tedeschi in Jugoslavia nell’ultima guerra e le condizioni di questi prigionieri come lui erano talmente pesanti che lui vedeva quotidianamente morire tantissimi compagni di prigionia compresi gli operai cioè gente che aveva un fisico di gran lunga più forte del suo. Ma perché morivano? Perché poveretti si disperavano e non riuscivano a uscire da questa condizione di disperazione che la prigionia provocava in loro. Bufalini invece com’è che si è salvato? Perché ogni sera recitava a memoria la Divina Commedia, si dava cioè una ragione di vita conoscendo Dante a memoria e il messaggio talmente alto di Dante gli ha permesso di non morire anche se era mingherlino, macilento e vedeva morire intorno a sé uomini forti che non avevano però risorse come le sue.
Ha dei ricordi personali legati a Pier Paolo Pasolini?
Con Pasolini è difficile parlare di un evento in particolare ma mi piace ricordare l’incontro dell’8 giugno del 1975. Noi della Federazione Giovanile Comunista lo chiamammo a esprimere il suo voto al PCI, non il Partito che anzi vide la cosa con una certa diffidenza perché Pasolini si proclamava comunista ma a modo suo quindi criticando molto quella che era la linea del Partito Comunista. Noi invece abbiamo voluto fare questo incontro al di fuori dell’ufficialità. Se si pensa che Pasolini, che in quel momento era sicuramente l’intellettuale più famoso, che scriveva sul Corriere della Sera ed era un regista celebre, veniva con noi a dichiarare il suo voto al PCI ma che questa cosa è passata quasi sotto silenzio, è stato un bel paradosso. Tale e tanta però fu la forza di quel suo discorso (che io stesso non mi aspettavo, lui in genere parlava a braccio, quel giorno invece si portò un testo scritto che si era preparato), che era quasi una poesia in cui spiegava perché nonostante tutto continuava a votare il PCI. Fu una cosa talmente alta e bella che io ricordo che in sala, in cui fino a quel punto del dibattito c’era stato brusìo, quando cominciò a parlare Pasolini, nell’arco di un minuto, si fece un silenzio assoluto, fino a quando non smise di parlare: a quel punto ci fu un’ovazione perché era una cosa così bella e profonda che andava ben al di là di quell’occasione.
È il ricordo di una giornata sicuramente indimenticabile.
Si arriverà mai a scoprire la verità sulla morte di Pasolini?
Secondo me si è già scoperta la verità, nel senso che chiaramente Pasolini, almeno per me, è stato ucciso in un complotto di più persone probabilmente per ragioni, almeno in senso lato, politiche: perché si voleva far tacere questa voce molto scomoda. Su questo non ho mai avuto dubbi, tanto più che il delitto è stato architettato proprio perché potesse essere verosimile e pasoliniano, ma io ho sempre detto che era troppo pasoliniano per essere vero. Dopo di che io per primo dico che mi interessa anche relativamente sapere chi era e chi non era e poiché temo che quelli che l’hanno pensato erano loro stessi legati al potere sarà ben difficile smascherarli. L’importante è che questa cosa che era stata data in pasto all’opinione pubblica, allo scopo non solo di uccidere Pasolini ma anche di screditarlo come corruttore di minorenni etc., alla fine si sia rivelata essere una grande mistificazione. Credo che sia già molto significativo che ormai nell’opinione pubblica media si sia capito che Pasolini non è stato ucciso per una vicenda banalmente omosessuale ma perché qualcuno lo voleva far tacere. È molto importante che questo sia diventato, in fondo, senso comune.