a cura di Renzo Pavese
(Estratti dell’intervista a Roberto Pazzi pubblicata sul n. 10/11 del periodico bimestrale “Cultura e dintorni”)
Quale regione italiana ha lasciato più tracce nelle sue opere – sia di poesia che di narrativa -, la Liguria dove è nato (Ameglia) o l’Emilia Romagna (Ferrara) dove è maggiormente vissuto?
Della Liguria conservo la verticalità tragica di una Natura maligna, che non sorride all’uomo, ma lo caccia a navigare per guadagnarsi il pane, lasciando a terra la famiglia. Tutta la mia famiglia materna da secoli è costituita da naviganti, costretti a lasciare la loro terra perché non dava lavoro, costretti a vivere lontano. Montale ha definito bene questa natura ostile e matrigna della mia terra materna, con le montagne che corrono a picco dentro l’acqua e non danno che sassi. Da lì, da questa natura verghiana, il mio pessimismo, la mia natura poco incline a fedi di riscatto sociale, a fiducie rivoluzionarie… Tutto questo però è corretto dall’altra metà di me, quella padana. Sono figlio di una terra, quella emiliana, grassa e fertile, di opposto segno, ottimista, solidale, sensuale, allegra, comunicativa. L’orizzontalità padana, così ottimista, così fiduciosa nel futuro, si oppone in me alla tragica verticalità ligure. E la prima è ariostesca, nella sua bonomia ironica, nella sua tendenza ad accettare l’umano in tutte le sue forme, quanto la seconda, come dicevo, è montaliana.
In quale (o in quali) delle sue opere viene condannato in particolare il “conformismo”?
Ma, in quasi tutte, credo. Cerco sempre un punto di vista inusuale, paradossale, perché cerco il punto di vista dei Troiani, mai dei Greci. E quindi ecco il punto di vista di Nicola II e non di Lenin, nella rivoluzione russa. E quello di Tiberio, Giuda e Pilato, nella vicenda della redenzione cristiana, i tre grandi cattivi, per redimerli… Mi affascina il problema del Male e dei cattivi. Chi sono i cattivi? Perché lo sono? Potevano essere altro? Hanno scelto o sono stati scelti per quel che hanno compiuto di Male?
Perché i suoi primi romanzi, Cercando l’imperatore (Marietti 1985, Premio Selezione Campiello) e La principessa e il drago (Garzanti 1986, finalista Premio Strega), sono basati sulla storia russa, il primo con il tema della fedeltà allo zar Nicola II da parte di un gruppo di soldati, il secondo sul fratello dello stesso zar, Giorgio Alexandrovic Romanov, che diviene una specie di nuovo Faust alla ricerca dell’immortalità?
Mi ha sempre affascinato la storia della Russia perché è il Paese europeo che si è aperto più tardi alla modernità, quello dove più a lungo è rimasta un’ombra della favola, che comincia sempre c’era una volta un re, mai c’era una volta un presidente della repubblica… Credo che l’Illuminismo non l’abbia quasi lambita, lasciandole uno spirito religioso e cristico di valore molto superiore alla superficialità cattolica dei paesi mediterranei. Penso ai romanzi di forte ispirazione cristiana di Dostoevskij, ma anche a quelli di Tolstoj, di Bulgakov, di Pasternak. La Russia è un paese tragico, dove il Male e il Bene hanno sempre aspetti assoluti, mai di mezza misura, senza mediazione possibile fra le due dimensioni, anche i terribili fatti di Beslan e dell’Ossezia del settembre 2004 ce lo dimostrano. Così nella vicenda epica della fedeltà allo Zar prigioniero di Cercando l’Imperatore ho potuto esprimere questa fame di epos e di eroismo, questo bisogno di credere in un assoluto umano, doppio di quello celeste che è Dio, espresso dall’Imperatore. Poi mi colpiva la tragedia della famiglia imperiale, che riconvocava in qualche modo in giudizio la tragedia di Luigi XVI e Maria Antonietta… Non credo nella giustizia della storia, sono sempre del parere di Simone Weil, “La giustizia, questa transfuga dal campo dei vincitori”.
Cosa sono per lei la “fiaba” e il “sogno”? Quali sono i suoi romanzi che maggiormente hanno affrontato questa tematica?
Credo i miei due romanzi russi, Cercando l’Imperatore e La principessa e il drago, Ma anche La stanza sull’acqua, ristampato da Bompiani nel 2012 e D’amore non esistono peccati uscito nel 2012 da Barbera.
Cos’è per lei un “papa”, la figura narrativa ricorrente sia in Conclave che ne L’erede di recente ristampato da Bompiani nei grandi tascabili?
Una figura carismatica suppletiva dell’Imperatore, mediatrice fra il visibile e l’invisibile. Il Vicario di Cristo, con tutti i limiti e le terribili responsabilità connesse.
Quali sono i tormenti maggiori di quel papa protagonista de L’erede (Frassinelli 2002) romanzo che il recente passaggio di consegne da Ratzinger a Bergoglio ha reso di straordinaria attualità?
Il tormento di essere solo a decidere cose che riguardano milioni di anime, il tormento di dovere essere infallibile, il tormento di dover domani abolire quello che fu vero ieri, di dover chiedere perdono, il tormento di dover morire con la paura della morte che hanno anche i credenti, il senso del dubbio di chi si volge a guardare una vita conclusa e teme di averla sbagliata tutta …
È corretto dire che Incerti di viaggio (Longanesi 1996, Premio Selezione Campiello, Superpremio Penne-Mosca) è il suo romanzo più realistico che affronta verità opposte e sconcertanti di una coppia dopo molti anni di vita in comune?
Sì, è l’unico iperrealistico, al punto da usare tecniche di automatismo della coscienza alla Joyce.
Di tutti i suoi diciotto romanzi, tradotti in ventisei lingue, qual è quello più storico?
Forse il primo, Cercando l’imperatore, anche se Alfredo Giuliani lo ha definito su “Repubblica”, quando uscì nel 1985, “romanzo metafisico truccato da romanzo storico”.
Quali sono secondo lei gli autori italiani del Duemila che hanno una certa importanza?
Vincenzo Pardini, Antonio Tabucchi, Alda Merini, Giorgio Caproni, Giuseppe Bonaviri. E un poeta romano scomparso nel 2004, e quasi ignorato, di raffinatissima vena kavafisiana, Alessandro Ricci.
In quanto penna del “Corriere della Sera” per dodici anni e attuale collaboratore de “Il resto del Carlino”, de “La Nazione”, de “Il Giorno” e di “The New York Times”, che cosa in genere si propone di dire al lettore in qualità di giornalista?
Una verità non già detta dalla tv, maestra di rimbecillimento collettivo. L’imbarbarimento del gusto dei lettori italiani è frutto del disastroso ventennio berlusconiano che ha appiattito sul demone dell’apparire a qualsiasi costo. Appari dunque sei… Ma lo Stile, la metafora, la scrittura muoiono di eccesso di vista… La visione – tipica della lettura – è inversamente proporzionale alla vista. Bisogna narrare a occhi ben chiusi, se si vuole reinventare la realtà alla Bulgakov, alla Marquez.