Giochi, simboli e allegorie.
L’arte di Lucilla Trombadori è una favola senza un perché
di Ginevra Amadio
Una favola senza un perché è il titolo della personale di Lucilla Trombadori (Roma, 1948) ospitata dal 15 al 31 maggio scorso presso la Fondazione Marco Besso di Roma. Un titolo evocativo, impalpabile, che tuttavia sottende la forza di un’idea, l’incertezza come agente di rottura contro la supposta linearità del pensiero, dell’atto creativo nella sua forma più pura. L’arte, con la sua carica sovvertitrice, ricerca – e inventa – una misura per deflagrare, per corrodere i formati, le pratiche di costruzione sociale. Così la pittura di Trombadori, che è un concentrato di umori, inversioni, giochi finalizzati alla decostruzione del reale. Le opere esposte – campioni di un simbolismo che attinge alle tradizioni più disparate, tutte egualmente raffinate – sviluppano la dicotomia affermazione/negazione e ne mettono ‘in scena’ gli scarti, le incertezze, il muoversi in bilico tra denuncia e omissione. Anche i confini si allargano, cedono, svelando la fallacia della normatività: non un’immagine univoca, un repertorio visivo in qualche modo incasellabile, bensì un mescolarsi di spunti, di idee, come un magma ribollente in cui giacciono i segni di una nuova dimensione. Linee tratteggi, campiture decise, ogni scelta contribuisce a tracciare un quadro surreale – o meglio, surrealista – in cui gli elementi, talvolta giustapposti, abbracciano il nonsense, come a evocare Leonora Carrington e Walter Benjamin, Alberto Savinio ed Henri Bergson. Difficile dirimere il nodo tra sogno e realtà. Tutto è traslato, slegato, un progetto condotto nel solco della norma al fine di svuotarne il valore, come a voler uscire dai ranghi per enunciare una ‘verità’, la propria idea di reale che è altro dal visibile secondo l’accezione saviniana della metafisica: non ricerca di un aldilà delle cose, di un mondo dietro il mondo, ma penetrazione nella loro essenza, capacità di coglierle con uno sguardo inedito. In questa prospettiva, le donne senza volto di Trombadori ricordano i manichini e le rovine dei fratelli De Chirico, le figure anfibie – tutte femminili – di Remedios Varo e Leonor Fini, i giochi infantili dell’avanguardia dada. Nel raffinato impasto di simbologie spirituali e artistiche, letterarie e religiose, si sviluppa una riflessione sul linguaggio che è anche tentativo di rivelare ciò che l’oralità nasconde nel momento in cui gli uomini narrano, mentono, manipolano. L’arte di Lucilla Trombadori, invita così a scrutare i lapsus, gli indici che dimostrano che è oltre il ‘dicibile’ che sta il senso ultimo delle cose, quel sentimento di autenticità che alberga nelle pause, nei frammenti di un discorso altro.
Molto bella