[Premio speciale della giuria della seconda edizione del concorso letterario “Il silenzio uccide” – Associazione “Il Guscio” contro la violenza di genere -Roseto-366 905 9042]
Ero in piedi davanti al letto, come il primo giorno all’Hotel Hedera. La stanza odorava di naftalina, piccole crepe screziavano le pareti di un bianco panna. Dalla mia posizione vedevo l’armadio aperto, la manica blu della camicia che spuntava indiscreta dall’anta rotta. Ogni elemento era difettoso: il tavolo zoppo, la bruciatura di sigaretta sul copriletto sintetico. Tutto. Persino i gesti. «Ho chiamato Adriano, ti viene a prendere alla stazione» Sembrava brutto ribattere, con la valigia d’addio già pronta alla porta. Ho ravvivato i capelli, il sebo delle radici mi umettò i polpastrelli. Avvertivo un senso di inadeguatezza, una sospensione molle tra il sollievo e la vertigine. Stavo in piedi come il primo giorno vedendo passare i lampi della mia storia, nove mesi con Dario chiusi in una stanza, circondati da moquettes polverose e paralumi Ikea, con orribili bagni ciechi ad accogliere i nostri umori. Non ricordo l’orario, ma so che gracchiavano i corvi. Il verso era perforante, il requiem di un amore imputridito, costruito sui cocci della solitudine, sul ciarpame dei giorni. «Non ho dove andare» «Non è un mio problema». Mi avvicinai alla finestra. Il palazzo di fronte era un muro soffocante. Pensavo alla vita dietro le finestre, la luce degli abat-jours velata delle tende. Mi immaginai seduta a tavola, davanti a un piatto di minestra e con un marito in tuta grigia, gli sguardi stanchi prima di chinarsi sul piatto. Felici, arrabbiati. Una vita come tante. Pensavo che ero fortunata a chiuderla lì, a farmi raccattare dal fratello in via Giolitti per poi cercare una sistemazione, libera dalle notti coi piedi gelati, dal russo smodato virante al rantolo. Era la prima volta che Dario cedeva. Ogni volta un grido, un’umiliazione, quel suo modo di guardarmi mentre fumava il mentolo, con gli occhi freddi da soldato, le labbra atteggiate a un sorriso beffardo. Non si è alzato dal letto, le braccia coperte di peli increspati sbucavano dal lenzuolo. Sembrava più vecchio, in perenne affanno. «Guarda che sei niente, Lorenza». Il pugno rimbombò sul materasso. Era un urlo di frustrazione, l’ansito del cane ferito. Scattò in piedi, mi spinse a terra, gli orecchini d’ambra si divincolarono dai lobi. Le voci contrastanti che agitavano la mia psiche sotterrarono i colpi. Le mani, i piedi, la coscia tirata, tutto bruciava e si anestetizzava, come fossi sott’acqua. Dario colpiva le costole, gli zigomi sporgenti. Colpiva la diversità, la ribellione, le catene recise. Ammazzami, pensavo, ammazzami così è finita. «Scusa Lorenza, scusa, non succederà più». Mi vergognavo dei miei pensieri, sentivo le lacrime che rigavano il viso, la voce pronta a spezzarsi e il dolore che è tutto qui, tra la glottide e gli occhi. Di nuovo mi chiedevo che cosa facessero i vicini, che cosa ne fosse delle altre coppie che avevano vissuto lì dentro, che avevano pianto come noi. Che si erano amate più di noi. Rassettai l’abito di cotone, ormai solcato da grinze. Mi parve di udire un lamento, l’eco di un altro tempo. Non avevamo più nulla da dirci.