Indelebile Costanza
di Ginevra Amadio
Ti ho presa per mano. Le nocche sporgenti cozzavano con le dita gonfie, la mano paffuta da bimba, ancora con le fossette che occhieggiano impudiche. Mi hai guardato ridendo, lo spazio fra gli incisivi pareva una porta su un mondo altro. Ho sempre amato la tua disinvoltura. Io avrei serrato le labbra per non mostrare un’imperfezione.
Ti ricordi quando siamo scese in strada a festeggiare il Capodanno? Avevi una giacca verde, gli orecchini d’acciaio rubati a tua madre. C’era il mare nei tuoi occhi, lo avevamo a due passi ma dicembre è un tiranno, ti spinge dentro, lontano dal vento che increspa le onde. Ci siamo guardate e tu ancora ridevi, hai sempre avuto quest’attitudine alla gioia. Quanti ragazzi morivano per te. «Costanza ride sempre, si veste sempre di luce».
Ecco la differenza fra noi. Luce e ombra, letizia e afflizione. Ma quanto era bello compenetrarsi, essere zolle dello stesso campo. Ero certa che nulla ci avrebbe rotto. Rivoltarci sarebbe stato il massimo attentato.
Ti ricordi l’album di Hello Spank? Lo abbiamo riempito di foto sbiadite, fatte con la Kodak usa-e-getta acquistata per la gita. C’erano spicchi di chiese e cabine telefoniche, San Giovanni e San Paolo immortalate di sguincio. E poi noi, Laura e Costanza, col cappellino giallo e le trecce piegate all’insù.
Quando torneremo amiche guarderemo quegli scatti lasciando la nostalgia fuori dalla porta. È sempre stata un danno, la mia massima colpa. Eppure era bello farsi asciugare le lacrime, chiamarti di notte per dirti che Aldo se ne era andato, che per Sandro ero troppo seria, per Marcello troppo magra. E tu ridevi, ridevi sempre. Scavavi sotto il dolore, ne prosciugavi la linfa tossica.
Non hai mai smesso di dirmi basta. Di strapparmi alla mollezza del ricordo, a quel desiderio di amare senza amarsi, di farsi madre di figli inquieti: sbagliati, sballati, profondamente inadatti. È grazie a te che ho riequilibrato il cuore, tu che sei tutta testa e quel muscolo lo tieni a bada, incastrato fra lo sterno e le propaggini neuronali. Bisogna che ti dica quanto è stata dura, come è nata e cresciuta questa libertà spinosa, che ancora adesso non sento mia ed è il tuo dono più grande, lo stesso che mi ha concesso di risalire dal pozzo, quando cadevo, affogavo nel buio e il solo pensiero eri tu.
La tua intrepida passione.
Il tuo mettere insieme parole sghembe, chiedermi il significato di quelle auliche.
Vedere il lato bello del mondo e la prosaicità della vita.
Eri fisica, materiale. Chiusa nel mondo dei bisogni primari: mangia, ridi, fai l’amore.
Vicina a me, ma diversa da me.
Ora ti scrivo da quest’angolo di mondo. Ho preso in affitto una stanza buia, che dà su un cortile zeppo di piante arse, cresciute senza sole e tra l’asfalto lacerato. Dalla finestra vedo le crepe sui muri, la signora del primo piano ha messo una tenda a pois: sembra belletto grezzo, una pezza sul degrado. Ho sistemato il tavolo come piace a te, i pennarelli sono ordinati per gradazione, giallo, charteuse, verde arlecchino, verde lime. Immagino il mare in quest’onda sintetica, quante volte abbiamo detto che sembrava plastica.
Da bambine facevamo il bagno tra le alghe, ne pescavi un ciuffo e me lo tiravi sul naso. Lo sento, se ci penso lo sento qui, a pizzicarmi la punta. Il passato non passa mai, si annida nei dettagli, nelle memorie minime. È una bava di lumaca, un’alga intrisa di acqua salata. Come questi fogli, questa penna, l’anello che segna l’anulare e non scorre via, mi inchioda al tuo ricordo. Perché gli oggetti parlano e noi tacciamo? Chi ha sbagliato a sparire, a non dirsi più “come stai”? Cristo questo anello quanto è stretto, lo avevi detto al gioielliere che sembrava piccolo…
Sono scappata, Costanza, il mare mi dava la nausea. Dovrei narrarti il viaggio, ripercorrere tappa per tappa quest’itinerario assurdo.
Tu dirai: smettila di raccontare. Vivi, sperimenta, balla.
Fai quello che non facevi.
Quello che occultavi nei cassetti del buon senso, dietro il sogno di un amore che è romanzo, film, tragedia.
Hai ragione, vivo per interposta persona. Amo perché ho letto, perché ho immaginato – né con te né senza di te: doveva essere una sciocchezza, perché non l’ho capito prima?
Ecco, sono andata via di nascosto, senza dire niente a nessuno. Mia madre piange, lo so, c’è sempre una madre che piange quando la figlia scompare. Ho scritto anche a lei, in questa casa mi sento sola. Le ho detto di darmi tempo, che non venga a rompere quest’uovo che mi tiene chiusa, finalmente un altro involucro rispetto al suo, sciolto dall’obbligo e dal giudizio, da un affetto che mi stordisce. Mia madre, col suo bel volto scavato e i capelli a metà spalle, ondulati, nero corvino, un’esplosione di fierezza. Anche lei ti amava tanto. Da quando ti ho persa ho finito per abbracciarla, per aggrapparmi alle sue gambe d’avorio, perfette come io non le avrò mai, fasciate in calze profumate. Tutto in lei sa di violette e rose. Ora che sono qui, lontana dal suo controllo, sento quella fragranza visitarmi nel sonno. Prima di aprire le palpebre la immagino ai piedi del letto, con la sua giacca Chanel e le labbra vermiglio. Bellissima, palpitante, il fantasma dei miei vorrei.
Ho imparato ad amarla, ho imparato ad amarmi.
Scappando da te il mio cuore ha fatto un balzo. La mia immagine deformata, fiacca, assume ora una nuova definizione. Non mi vergogno degli occhi miopi, sotto il lenzuolo faccio viaggiare la mano. Esplora, ricostruisce. Le cuspidi dei ginocchi occultano i segni dell’intervento. Le cosce magre, senza muscolo, si aprono come per respirare.
Ho fatto una doccia. Tutte le sere ne faccio una. Alle 19, prima di cena. Quando mi metto a tavola e penso a te. Ti vedo gustare la pasta al pesto, lamentarti per la cottura al dente. Ti sento chiedere il gelato, prendermi la mano e andare sul mare. Verde, pacifico, odoroso di lichene.
Qui non c’è, non c’è neanche un lago. Sono lontana, Costanza, chissà mai se mi troverai. Ho messo duecento chilometri fra noi, una linea montuosa, terre aspre e brulle. Ti immagino inviarmi un fiore, o suonare alla porta di mattina presto. Aprirei lesta, in vestaglia, col migliore sorriso della donna che sono. E rido, alla fine, come una che si sente bella e viva.
«Anche Laura ride sempre, si veste sempre di luce».
Bellissimo racconto, intimo, delicato, vero. Bravissima Ginevra, ma questo già lo sapevo e anche questa prova letteraria lo ha confermato.