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Archivi del giorno: 6 Maggio 2017
La scrittura delle eccezioni. Nel vortice di “Il circo degli uomini” di Luca Carbonara
Nella sospensione tra un particolare senso etico che affiora dalla memoria tissutale e la vastità degli effetti ottici procurati da spazi vissuti e ristrutturati nella mente, Luca Carbonara conferisce un nuovo ordine alle visioni che i suoi racconti rimandano. In posizione mediale tra gli effetti ricevuti e l’identità delle cose e delle circostanze, l’autore riformula l’intera situazione e il confronto con quanto, pur narrato al passato, non è mai caduco; ne recupera le schiette essenzialità, estraniandole da quella che, oramai, appare schiavitù inconsapevole, sottoposta a irrimediabili e inconfutabili leggi che si impongono con algoritmi enigmatici e carismatici sull’individuo, costretto in uno stato di continuo decadimento, in perenne transizione e lacerazione. Ed è un fatto che nella versione raccontativa insista una frammentarietà rotonda, palpabile ed eterea come una geometria umana di sconfinamento; inedita in un’onestà intellettuale, che continuamente esclude da sé la prolissità, rammentando da vicino l’increspato movimento interno che scalfisce la superficie di un quadro di Hopper: esponenziale pur nella circolarità delle evenienze incalcolabili e nella necessità di recuperare nettezza e revisione a una linearità esiziale, distratta e distruttiva.
Pur se son trascorsi quattro anni dalla pubblicazione di Il circo degli uomini, nulla sembra cambiato nello scenario esistenziale. in effetti, nel momento in cui accantona la sua ossessione per gli algoritmi, il tempo rescinde altresì le relazioni artificiali con la caducità e rafforza le significazioni intrinseche della parola fluida di contro alle convenienze della narrazione. Con ciò intendo non che il tempo soffra di un irrimediabile freno. Tutt’altro: è il modo di percepire che, fondamentalmente, resta invariato e non già le circostanze, giacché l’individuo si misura con riflessioni che, pur composite in senso epocale, risentono solo marginalmente della variazione, che è in ogni caso (avvertita come) esterna. Un circo, appunto, nell’oasi inconclusa di avvenimenti, che assemblano percezioni esistenziali e conferiscono movimento a spazi che, altrimenti, rasenterebbero la follia dell’alienazione e il mutismo dell’inutilità del luogo. Al contrario, attraverso particolari tracciati narrativi che costringono a sostenere l’auge di un’intuizione prolifica, si perviene a una sensazione anti-frenante e anti-caduca; inveterata divergenza tanto fisica, quanto intellettiva e privata (dentro-fuori in continua elaborazione) di circostanzialità che esplodono in luoghi in cui la vigilanza ferrea della percezione incancrenita solleva un nuovo vigore ed esalta in un attimo quanto, nel suo avvenire, barcolla nel continuo pericolo di essere assorbito da un’abitudinarietà sfinente e che opacizza l’abilità osservativa.
Nessuno, infatti, sembrava farci caso. Il chiaro involucro finì per invecchiare di colpo essendo stato involontariamente assimilato alla vista di tutti i giorni, ai merli, alle bifore, agli archi, alle colonne. Piccoli fatti di vita quotidiana si svolgevano lì davanti: incontri casuali, appuntamenti, era la città che viveva tutto intorno.
L’osservazione e la capacità traduttiva dell’osservazione sono ambiti inventivi che nei racconti infrangono lo schermo avvezzo a scene ripetitive. Ne colorano le percezioni, congiungendole a condizioni che, pur affermate in una presunta individualità, rientrano nel reale vissuto ed è nel reale vissuto che gli eventi si presentano contrariamente alla sequenza, tanto da suscitare una tipologia simultanea di narrazione che procede in maniera pervicace, discreta e, a un tempo, totalmente divagante. In essa i luoghi non sono soltanto spazi animati nel momento in cui i personaggi appaiono. No: essi esistono parimenti al soggetto che ivi è incanalato per scelta e non già quale propalatore di intime verità. Piuttosto, tanto i luoghi quanto gli stessi personaggi sembrano scuotere la sensibilità assente e deviare dalla comunanza con cause ed effetti comuni, che l’autore asserisce recalcitranti alla consuetudine. In termini modernisti, si potrebbe sollevare un’idea di flusso di coscienza che tocca ciò che rientri nella vivenza e che, simultaneamente, ricade con una percezione distintiva e, per quest’aspetto, autorevole, irrefrenabile e inequivoca.
Così le storie restringono lo spazio cinetico e si connettono inesorabili al reale vissuto, nel quale pur s’evidenzia (…) la voce del desiderio che può conoscere ansie e paure ma che sempre puro si rinnova. Una facoltà che recupera e sintetizza il valore della volontà schopenhaueriana e che trova solco adeguato nel tessuto motivazionale anticipato da Flaubert, sebbene ben presto l’ambizione di interloquire con spazi visuali comporti l’intromissione diretta nel gestire, mediante una sensibilità totalmente personale, condizioni esterne. Non così la scelta narrativa di Luca Carbonara, sicché ciascun personaggio ‒ nel continuo riposizionamento ‒ compare e assorbe lo spazio scenico, pur esso apparentato in un rinnovamento che avviene nelle sensibilità che sia gli oggetti che gli eventi contemplano. Un flusso interminabile, dunque, che vede un tempo unico aprirsi e chiudersi in uno stato d’incessante avvenienza e inarrestabile conclusività. È lo spartito quotidiano di un ritmo privo della pretesa di muovere a finitezze universali o oggettive.
Le persone camminavano inconsciamente comandate da un misterioso senso dell’orientamento.
Nel particolare orientamento, la modalità (ap)percettiva è anch’essa effetto (e non solo medium) dello scenario che, in questa maniera, diviene spazio vivente, dotandosi di rinnovata dignità e di un linguaggio che il gesto e l’avvenimento stesso sembrano decifrare, scalfendo il fitto intrico di disturbanti interferenze. Così il libro racconta una storia fuori da svolazzi retorici, escludendo da sé riempimenti inutili alla comprensione e viepiù modificati attraverso quella che mi piace definire scrittura delle eccezioni, nella quale si manifesta la solerte affezione all’essere esistente attraverso strettoie culturali che, lievi (ma non gracili), si rappresentano nelle minute apparizioni. Ed è da queste apparizioni che emerge lentamente la dedica alla vitalità che rifiuta la noia delle visioni uguali, repentine, fruscianti nel sopore della sequenzialità.
In effetti, di contro a una crisi che, invero, si concilia con le medesime posizioni, passando da una polemica che si frange anche su aspetti meramente artistici, l’opera di Luca Carbonara designa il posto di rinuncia alla crisi e si dipana come acribica inchiesta su esistenze minute e indipendenti. Piccole pellicole docu-filmiche, le esistenze transitano nell’economia editoriale e in esse non è difficile riconoscere che innumerevoli altre possano manifestarsi tanto negli spazi angusti, che negli spazi aperti ed estesi più in là rispetto al mero caso e alle esorbitanze immaginarie; possibilmente là dove la folla perde opacità per redimersi in una collaborativa percezione esistente, diretta, sebbene non sempre immediata; tattile e irrisolta, come irrisolta è la scansione dovuta alle presenze e che incalza per merito di un’intelaiatura che solleva la vicenda e l’avvicendamento intuitivo, senza la necessità di sottolineare il rintocco di quanto accade spontaneo senza ricorsi plastici a peana inutile. La scelta consente all’autore di accedere con particolare fluidità a un territorio antropico tissutale e senza agglutinazioni artificiose e adattabili a un fascino non richiesto. È un teatro, certo, nelle inquiete staticità di un Beckett anti-sontuoso. Per certi aspetti, nella cadenza morbida e comprensibile della parola dai toni piani, sussiste una descrizione che addirittura appare rituale, come rituale è l’organizzazione della scena, in cui ciascun soggetto opera con consonantico equilibrio tra le parti, descritte in maniera stoica perché suscitino una visione non già ripiegata su se stessa e che sia comprensiva lungo l’intera curva della narrazione. In tal senso ciascun racconto assolve a una ricerca diacronica, impregnata delle mutevolezze dell’essere nel suo stare-andare, nel rompere l’imbarazzante distanza che, pur vivendo al centro o alla periferia della storia esistente, l’individuo (talora in maniera trasversale) colloca tra sé e il resto. Non così Carbonara, il quale inscena la relazione che è sempre relazione di parti tra le parti senza indugiare alla sconfitta, quanto, invece, alla nuova posizione che, nella piccolezza della circostanza, determina il nuovo percorso.
Nell’inconsapevole avvenimento che è il vivere, i personaggi vivono i propri modi e parimente se stessi senza essere ingabbiati in ruoli schiusi solo all’estremo giudizio. Un giudizio che, per altro, mai è sollecitato e che non esiste, se non in un orizzonte in continua distrazione pur restando nell’ambito del reale tangibile, così come avvalorato dall’assunto contemporaneo offerto dall’arte e dalla modalità di scrittura, secondo cui l’oggetto d’interesse sia colto nell’ambiente dal quale non si dissocia e non solo per un fatto scientifico, quanto per una vitalità smossa da un’estetica che rimuove qualsiasi titolarità ottusa e tesa a disporre distanze tra il prima e il poi, il soggetto e l’oggetto, la regalità e la modestia visiva, (…) separati da un interminabile serpente di cemento che fagocitò anche l’ossigeno e deturpò lo spazio.
Epperò, un nuovo elemento contribuisce alla particolarità dei racconti: essi sono gruppo e nel gruppo si riconoscono non già per un presunto lieto fine.
Fu un attimo, e subito dopo la gente si ritrovò muta a guardarsi e a guardare. Sembrò intenta a pensare a ciò che aveva di fronte: non si trattava di una forma definita, o facilmente e univocamente identificabile, pareva anzi sfuggire e non finire con lo sguardo.
Suscitati a reazioni dettagliate per una specificità che li lega al luogo al pari di risveglianti madeleine proustiane, nel localizzare l’impianto in avvenimento, i racconti ‒ veri e propri soggetti globali ‒ destabilizzano la continuità e dall’anonima immagine di scena fanno defluire vetuste note e dispersioni e promanano l’esistenza di identità che si distaccano dal segno gracile di una folla sbiadita nei gesti senza volto e senza intuito.
Allora le menti divennero sognanti, e molti udirono le note di una viola sprigionarsi dalla scultura che adesso finalmente riuscivano a decifrare, mentre gli altri si ritrovavano a vagare liberi su distese di viole che parevano librarsi da uno spazio nuovo generato da un colore.
Ravvisabile è, pertanto, una scientificità di scrittura calibrata tra descrizione e vaganza intellettivo-immaginativa, e che comporta il recupero non di idee e valori transitori, aleatori, ma una figuratività che, nel rigenerarsi ‒ senza imitazione prosaica alcuna ‒, fotografa il movimento interno-esterno e infine rende tridimensionali e proiettivi tanto il personaggio che la circostanza. Nella successione della curvatura è pure la densità, che rende ciascun intervento unico, convincente e in grado di diffondere – nella luminosità istantanea – la riflessione silente di chi nel momento agisce, compensando l’intensa preoccupazione dell’autore riguardo a una realtà che insieme è ed appare o solo si concentra sulla concretezza dei fatti, dai quali l’alterità stessa si diparte, congiungendo in un unico insieme volubile le volute del reale-concreto. Del visto-non-visto. Di tal guisa, l’autore appare quasi distanziato dallo svolgimento; non apporta alcuna contaminazione manipolativa, se non mediata dal voler riportare il valore non già dell’uomo, ma delle eventualità che avvengono mentre l’uomo le vive. In tal senso, si tratta di un circo: avvicendamenti dall’onestà interlocutoria, lucida e, a tratti, anche cinica nel porgere illimitati confini se non con una misura che s’articola sullo spazio occupato e da lì procede o decide di fermarsi. Qui la presenza antropica si completa nella simultaneità di gesto e fatto, passo e riflessione mentale. Anch’esse spazi reali.
Fluide, composte, le atmosfere dei racconti sono ragnatele garbate, all’interno delle quali le parole seguono un progetto d’equilibrio tra le parti e il tutto esistibile intorno. Un regno calpestato, dal quale le vicende si animano con una narrazione che scompensa la finitezza della temporalità e congiunge il trascorso con un presente di scrittura nell’intrico ammorbidito da una lettura partecipata. Fumi e dispersività si dileguano per risvegliare dalla staticità ottenebrata dalla consuetudine gestuale le movenze che attecchiscono anche in condizione di riposo. Così la tela prende vita dall’angustia. Ed effettivamente c’è bisogno di vedere con serenità contro il muro di schiamazzo e un richiamo subentra e arriva a sobillare tutto: Che cosa era successo quel giorno? Questa la richiesta in un mondo genuflesso alle risposte e che disimpara a porre domande se non con una corazza di dinieghi e contraffazioni. In tal senso, come già evidenziato, ciascun racconto sembra tenacemente rimandare un’immagine hopperiana vivacizzata e che, solo dopo la brevità circolare dell’avvenimento che la definisce, torna nella sua nicchia di quadro dai colori decisi, tonici e concettualmente rigidi, come se anche l’agire fosse illusione. Qui il materico incontra lo spostamento nella duttilità di apparenze che tali restano e che evitano di confondersi con la veridicità che vigila all’interno nella duplice presenza di dentro-fuori e di ombre (pensieri inespressi, ma non assenti) che si fanno carne e stranamente non comportano mistero secondo convenzioni esacerbate dall’uso: ciascun elemento è vitale e l’autore ne riconosce la pienezza a fronte di un visualizzare in cui Nessuno, infatti, sembrava farci caso. (…) .
Ecco il fattore misterico: ciò che diviene abitudine si ritrova di colpo in una vecchiaia pari a inutilità, disaffezione. Epperò nell’habitus è anche la proiettività: Cos’è che vedi? ‒ È la domanda che scuote l’intero corpo del libro in un tempo che insiste pur senza averne facoltà traduttiva, così come intraducibile è la transizione che avviene quando le mani e il passo sono impegnati inconsapevolmente con vicende di cui si disperde ben presto la memoria e che, tuttavia, rappresentano il territorio di svolte che invisibili attraversano la mente, talora rendendoci partecipi.
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