Tra le luci e le ombre dell’altra metà della vita
Intervista ad Andrea Mattioli
a cura di Luca Carbonara
Che cosa ha significato per lei, dal punto di vista più personale, e per il suo percorso di vita studiare in un prestigioso Conservatorio e acquisire, a un tempo, una forma mentis e una cultura, una formazione musicale? Che strumenti può offrire oggi la musica nell’interazione e interpretazione della realtà?
Andrea Mattioli
Grazie mille per la domanda. Studiare in un Conservatorio ha avuto un impatto profondo sulla mia vita, non solo in termini di formazione musicale, ma anche per la forma mentis che questo percorso mi ha aiutato a sviluppare. La disciplina musicale, infatti, mi ha insegnato a pensare in modo sfaccettato, a “ragionare su più livelli” e ad avere una visione d’insieme, invece di limitarmi a un solo punto di vista, anche se non sono riuscito a ottenere il diploma finale. L’armonia, per esempio, è il risultato di una combinazione di strumenti e note diverse che dialogano tra loro, e questo principio riflette molto bene il mondo complesso in cui viviamo oggi. Per molte persone, la musica non si trasforma necessariamente in un lavoro, a causa degli alti livelli di competenza richiesti. Tuttavia, anche solo come percorso di studio, la musica offre strumenti preziosi per interpretare la realtà: ci aiuta a sviluppare flessibilità mentale, attenzione ai dettagli e capacità di ascolto, qualità essenziali anche al di fuori dell’ambito musicale. Per quanto riguarda il valore della cultura, è vero che, in un certo senso, essa “non serve a niente,” e proprio per questo non è serva di nessuno.
Da Clio, la musa del canto epico, a Euterpe, la musa della poesia lirica, la Musica è la regina delle arti che imbeve della propria essenza e del proprio spirito ogni attimo della nostra vita che non potrebbe esistere senza di essa. Come è nata in lei la passione per la scrittura e quanto in questa ha trasfuso dei suoi studi di composizione? Che differenza c’è, in primis a livello di ispirazione, tra scrivere e suonare?
La passione per la scrittura è nata quasi in parallelo a quella per la musica, che ho coltivato fin da bambino, e si è intensificata durante l’adolescenza, anche grazie a un interesse quasi “ossessivo” per la filosofia. Ho iniziato a scrivere racconti a sedici anni, vedendo nella scrittura uno strumento per raccontare il reale, ciò che spesso percepivo ma che sembrava quasi “tabù” affrontare apertamente. Nei miei primi romanzi, la musica e la letteratura si intrecciavano, mentre oggi la scrittura ha preso il sopravvento. La scrittura mi ha sempre dato un impulso irrequieto, uno sfogo impulsivo, mentre la musica era il contraltare, una ricerca di bellezza. Diciamo che ho bisogno di entrambi: nella musica trovo serenità, nella scrittura cerco di esplorare e raccontare ciò di cui la gente non vuole parlare, ma che mi sento il dovere di esprimere.
La cover del romanzo di Andrea Mattioli
Nel suo ultimo romanzo L’altra metà della vita, edito da BookRoad come i tre precedenti La sinfonia proibita (2019) e L’antica profezia (2021) e Lui (2022), lei sembra, già dal titolo, “giocare” sul dualismo, sulla dicotomia, sull’antinomia, sull’antitesi, di visione e di sentimento, della vita stessa, dimidiata tra bene e male, luci e ombre, e, dunque, tra canto e controcanto. E, ancora, sul rompersi, sullo spezzarsi di un’armonia, elemento ancora una volta essenziale della musica, di un percorso di vita che sarà diverso, opposto per i due protagonisti Luca e Simone sin dallo loro più tenera età: improvvisamente traumatico per l’uno, all’età di otto anni, lineare e “normale” per l’altro. Che cosa vuole dirci questa storia che vede improvvisamente e crudelmente divaricarsi il destino di due ragazzi dalle vite fino a quel momento tranquille e caratterizzate per lo più da spericolate e spensierate corse in bicicletta nella nativa città di T.?
La storia vuole comunicare il non giudizio e il fatto che spesso ci troviamo a vivere vite e fare scelte che non abbiamo vogliamo, né possiamo prendercene la responsabilità. Luca, come Edipo, è condannato a un destino avverso, dal quale fin da subito cerca di districarsi, di risorgere, di combattere, pur sapendo che la sua sconfitta è inevitabile. Simone, invece, è una vita che cade in una dinamica senza colpe, come tutti i personaggi del romanzo. L’abuso sessuale ai danni di Luca costringe tutti intorno a lui a “subire” una vita che non avrebbero mai voluto vivere. È una lotta per la vita, un’agonia di sopravvivenza: i personaggi non vivono, ma sopravvivono, sempre destinati alla tragedia. Simone cerca riscatto nella fuga, Luca cede alla rabbia e si trasforma in carnefice. Entrambi diventano “gli ultimi” a cui è dedicato il romanzo, rappresentando tutti coloro che combattono battaglie pur sapendo di partire già sconfitti. È un continuo inseguire ciò che manca. Non avendo gli strumenti emotivi per superare l’abuso subito da Luca, tutti i personaggi cercano nelle altre vite la soluzione ai propri vuoti. In questo inseguire senza fine, si riflette un po’ l’angoscia di Kierkegaard, che perseguita queste esistenze: la consapevolezza di non poter mai colmare veramente il proprio vuoto, e di restare intrappolati in un circolo di sofferenza e ricerca infinita.
La violenza, l’abuso subito da Luca ancora in tenera età da un ragazzo più grande, ancora una contrapposizione, darà il La alla calata del sipario, al sopraggiungere delle ombre e al prevalere del silenzio figlio dello shock che non a caso prevarrà e porterà Luca a nascondere il suo dolore e a nascondersi a e dagli altri suoi coetanei i quali, Simone compreso, lo dileggeranno e faranno oggetto di bullismo. Rimasto solo sarà per lui una caduta agli inferi che lo renderà preda dei più oscuri demoni e vittima della droga che lo porterà a un passo dalla morte. Il riscatto e la rinascita arriveranno proprio quando, da solo, riuscirà a rompere quella gabbia di silenzio e di dolore e ad andare in terapia grazie alla quale troverà la forza di denunciare l’abuso che tutto e tutti sconvolgerà. Cos’è che prima divide, rompendo drammaticamente l’armonia, e poi unisce i destini degli uomini?
Da bambini, siamo inevitabilmente portati all’imitazione, soprattutto dei genitori, e spesso lo viviamo come un gioco. Luca, nella sua sofferenza, non ha mai potuto raccontare nulla, sapendo che non sarebbe stato compreso o, peggio, deriso. Ma quali strumenti hanno i bambini, e poi gli adolescenti, se per tutto quel tempo di “gioco” vedono solo giudizi sul diverso o l’insegnamento della sopraffazione sugli altri? Quali scelte restano loro, se crescono dentro questi modelli? Cos’è che livella e riporta tutto a una somma zero? La morte, o meglio, la paura della morte. L’overdose, la denuncia che ne è seguita, il funerale della madre di Luca, l’ictus: sono le soluzioni che la vita offre per ritornare a questa drammatica armonia. Solo attraverso la paura e il lutto, che si trasformano in sofferenza, si arriva a comprendere che molti degli strumenti appresi nell’infanzia non servono a nulla, anzi, possono essere dannosi. Quando ci rendiamo conto che i nostri genitori, che da bambini vedevamo come supereroi, sono persone “normali”, tutto cambia e ci mette di fronte a una domanda cruciale: chi sei davvero? Le scelte che hai fatto, le hai fatte per te o per accontentare i tuoi genitori? Nel romanzo, dedico molto spazio alla terapia psicologica, perché oggi è una delle strade migliori che una persona possa percorrere per conoscersi e guarire. La storia invita a riflettere su come ogni gesto abbia conseguenze enormi sul mondo che ci circonda: una discussione davanti ai figli, un grido contro la televisione durante un dibattito politico. La “polvere sotto il tappeto” può ancora funzionare, o finisce solo per creare danni incalcolabili? È una riflessione profonda: dobbiamo sempre arrivare alla morte per comprendere le cose o riappacificarci?
Simone, diventato giornalista, la cui vita è scorsa solo apparentemente in modo più lineare, in qualche modo anche lui in fuga e rimasto legato da un filo invisibile alla città dell’infanzia, rimarrà sconvolto dalle rivelazioni di Luca e, vinto da un insostenibile senso di colpa, riscatterà il dolore dell’amico scrivendo e consegnando ai lettori le sue memorie. Una vittoria sul silenzio e sulle sue più cupe ombre dunque. È questo il senso ultimo, il valore salvifico della scrittura e, per estensione, della musica, la partitura per eccellenza?
Il “potere salvifico” è un concetto che evoca molte emozioni. Credo che sì, la scrittura, sia musicale che letteraria, possa davvero salvare le persone, ma solo a condizione di raccontare la verità. Fin dall’inizio, ho scelto di comunicare la verità, di confrontarmi con il lettore, di provocarlo, di infastidirlo, come uno spillo che penetra sotto la pelle, parola dopo parola. Penso che il racconto del reale possa aiutarci: ci permette di vedere che, in fondo, non siamo soli, che molti di noi vivono in prigioni di cui hanno perso la chiave e forse quella chiave non si sa come l’abbiamo noi che guardiamo da fuori. Il silenzio a volte può essere costruttivo, ma il silenzio che avvolge il mondo è pericoloso. Dante, per esempio, relega gli Ignavi fuori dall’inferno, condannandoli a pene terribili, perché il silenzio verso il reale è la non-scelta. Restare in silenzio significa diventare i primi carnefici di noi stessi e del mondo intorno a noi. Dobbiamo prima di tutto provocare noi stessi, avere il coraggio di instillare dubbi, e poi ascoltare: quante persone come Luca esistono nel mondo? Dobbiamo osservare e dare voce a queste persone, agli ultimi. Ed è proprio questo che fa Simone. Dona una storia – una storia tragica e senza speranza, certo, ma pur sempre una storia su cui riflettere.
Crede, o meglio teme, che l’intelligenza artificiale, le cui applicazioni hanno già portato robot a comporre ed eseguire brani di musica classica come a scrivere opere letterarie, arriverà a soppiantare l’uomo e i frutti del suo ingegno e della sua sensibilità?
È una domanda intensa, che apre scenari complessi. Credo che l’intelligenza artificiale rappresenti una grande opportunità per tutti. Per quanto riguarda il rischio di “soppiantare” l’uomo, penso che questo processo sia iniziato già negli anni ’60, come anticipavano filosofi come Heidegger o Günther Anders. L’intelligenza artificiale non fa altro che amplificare un percorso già avviato, un’evoluzione inevitabile. Tuttavia, l’IA funziona solo su input, e penso che l’emozione umana, l’arte autentica, quella che definiamo “salvifica”, sia impossibile da replicare o sostituire. Piuttosto, dobbiamo cambiare prospettiva e approccio verso questa nuova forma d’intelligenza. Certo, può incutere timore, ma una buona comprensione delle teorie della Scuola di Francoforte può aiutare a vedere l’IA come il proseguimento di un processo che ha preso il via decenni fa e che ora accelera a velocità vertiginose. Ciò che forse manca è proprio la comprensione: comprendere la storia e imparare da essa, una lezione che, a giudicare dall’attualità, l’umanità sembra non aver ancora appreso del tutto.
Quali sono i suoi programmi e progetti futuri?
Ho molti progetti in cantiere. Ho appena terminato il mio quinto romanzo, in cui esploro le relazioni e mi chiedo se i valori tradizionali che ci sono stati insegnati siano ancora validi o se dobbiamo prepararci a un cambiamento anche in questo ambito. Al centro del romanzo c’è una domanda provocatoria: possiamo considerare la gelosia un disturbo mentale, alla stregua di altre patologie psichiche? Questo lavoro mi ha anche ispirato a creare un podcast, che uscirà nei prossimi mesi, in cui affronterò il tema delle relazioni, sempre più complesse e fluide. Inoltre, ho già iniziato a scrivere le prime bozze del mio sesto romanzo. Le idee non mi mancano, e ho almeno cinque abbozzi di nuove storie nel cassetto, pronti per essere sviluppati.